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mercoledì 11 marzo 2009

A SPASSO IN ISRAELE E PALESTINA PER VIVERE LA QUOTIDIANITA’ DI DUE PAESI IN GUERRA. UNA GIORNALISTA E UN FOTOREPORTER MASSESI ALLE PORTE DI GAZA

Una guerra millenaria, quella tra israeliani e palestinesi, forse destinata a non avere una fine. Uno scontro politico, in seconda istanza militare, sullo sfondo decisamente economico, ed anche un po’ culturale e religioso… Ma soprattutto uno scontro umano. Quello che la gente comune vive in quella terra “maledetta” non è vita… ma può diventare morte… e per molti è solo sopravvivenza. A fare le spese delle decisioni politiche delle grandi potenze e di chi crede in storici princìpi spesso discutibili da entrambe le parti, sono due interi popoli, condannati fin dalla giovanissima età a vivere una quotidianità distorta e malata: in Israele i ragazzini lasciano le altalene dei parchi pubblici per correre a rifugiarsi nei bunker quando sta per arrivare un razzo; a pochissimi chilometri di distanza i loro coetanei palestinesi vengono perquisiti dai militari israeliani anche all’ingresso della scuola.
Durante la presunta tregua di fine gennaio, sulle città israeliane vicine a Gaza, quindi Asquelon, Sederot ed altre, piovevano missili, i temutissimi kassam: da decenni abituati a scappare cercando riparo nei “safe point” disseminati per strada e nelle case all’avvio della sirena di allarme che annuncia l’imminente caduta del missile, gli israeliani vivono con una serenità agghacciante la realtà della guerra: grandi e piccini sanno come comportarsi quando comincia a suonare la sirena, ogni casa o luogo pubblico è dotato di una “safe room” senza finestre e dai muri spessi, dove tutti sanno di doversi rifugiare al momento dell’attacco; nei locali i buttafuori hanno il compito di contare i numero degli avventori per essere certi che esso non superi quello previsto dalla capienza della “safe room” interna, per strada le fermate dell’autobus sono costruite in cemento armato e fungono da punto di riparo per chi si trova in strada al momento dell’attacco.
Addestrati alla vita militare ed avvicinati alla cultura della guerra fin da giovanissimi, i ragazzi e le ragazze israeliani svolgono obbligatoriamente due anni di servizio militare, tra l’orgoglio e la paura dei genitori, che allo stesso tempo temono per la loro vita e gioiscono del loro impegno umano e militare per la causa israeliana: «Mio figlio è stato chiamato a svolgere il servizio militare pochi mesi fa – ha raccontato Marco Markovich, che ad Asquelon svolge la professione di dentista dopo aver per anni studiato e vissuto in Italia – ed anche mia figlia verrà presto chiamata per svolgerlo, perché in questo paese per i giovani non ci sono alternative. Ricordo che i nostri nonni, quando ci vedevano andare a combattere, ragazzini, dicevano che saremmo stati l’ultima generazione di israeliani ad imbracciare le armi, e che noi non avremmo visto i nostri figli coi mitra addosso, ma non è stato così: non più tardi di due settimane fa in casa i miei ragazzi avevano paura che partisse la sirena di allarme e non riuscivano neanche a chiudersi in bagno per fare una doccia. E oso dire che la vita sarà all’incirca così anche per i miei nipoti».
La qualità della vita non è delle migliori neanche in terra palestinese, al di là delle altissime mura di cinta che l’esercito israeliano ha allestito intorno ai centri abitati palestinesi: filo spinato, cavi dell’alta tensione e cecchini appostati ovunque la fanno da protagonisti in tutte le zone palestinesi militarmente controllate. Chi vive in città prestigiose ed affascinanti come Ramallah non ha forse l’incubo dei missili kassam, ma deve fare quotidianamente i conti con gli attacchi “a sorpresa” e spesso imprevedibili di uno degli eserciti più forti del mondo, e coi check point di controllo disseminati in ogni angolo della città: ogni palestinese deve ottenere il permesso a transitare al di qua ed al di là del posto di blocco anche più di una volta al giorno, per entrare ed uscire, praticamente, da casa sua. Lo stesso dicasi per chi fuori dalle città ci lavora: Mukamaiat Shofat ad esempio, arabo palestinese che dalla città di Anata, peraltro interna al territorio di Gerusalemme ma ubicata oltre il muro di cinta della stessa, si reca ogni giorno nel centro storico dalla città Santa per lavorare nel suo splendido negozio di oggettistica, e viene sottoposto a perquisizioni e controlli come minimo due volte al giorno, quando entra nella città per cominciare la sua giornata di lavoro, e quando la sera se ne va per raggiungere sua moglie ed i suoi quattro bambini per la cena: «E’ una cosa molto triste dover essere sottoposti a continui controlli – ha spiegato – perché cominciare la giornata così vuol dire perdere, oltre a molto tempo, ogni entusiasmo per il proprio lavoro, e qualche volta anche per le persona care, perché viene a svilirsi la carica di calore umano che abbiamo nel cuore. Penso più che a me, ai miei figli, che per entrare in città e recarsi a scuola vengono perquisiti e interrogati ogni mattina, all’andata ed al ritorno, da uomini armati e per forza di cose minacciosi: sono dei bambini. Soltanto dei bambini».

Margherita Mazzarella

2 commenti:

  1. Mi limito a fare due brevi considerazioni: 1) i numerosissimi razzi (non missili) lanciati dai palestinesi dal 2000 ad oggi hanno causato la morte di una decina di israeliani, mentre come è noto solo con l'operazione "piombo fuso" l'esercito israeliano ha ucciso oltre un migliaio di palestinesi, tra cui centinaia di bambini; 2) per capire quel che accade in Medio Oriente non si possono ignorare i motivi che hanno costretto un popolo ad impugnare le armi per difendersi dalla violenza di uno Stato che se ne infischia del diritto internazionale, ma fa valere la forza della ragione nei confronti di coloro che hanno il torto di essere più deboli.
    Ovviamente il conflitto israelo-palestinese non è un film americano in cui i buoni sono tutti da una parte e i cattivi tutti dall'altra, ma è necessario se non ci si vuole arrendere all'idiozia (nel senso etimologico del termine) del politicamente corretto, saper distinguere e valutare senza lasciarsi intimorire dalla "pre-potenza dei mezzi di comunicazione di massa, il cui quasi incondizionato sostegno ad Israele non può certamente stupire nessuno.

    Fabio F.

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  2. Mi sento di essere perfettamente d'accordo con Fabio F., e le scelte dei media e dei politici europei sono, direi, condizionate in modo pesante dalle scelte di "convenienza" più che dalle reali necessità dei due popoli.
    Ovvio che dopo decenni di guerra aperta, fredda e prese di posizione demagogiche, risulti quasi proibitivo venire a capo della cosa, ma almeno bisognerebbe sforzarsi di dividere e separare le posizioni ideologiche dalla realtà dei fatti: e i fatti sono sotto gli occhi di tutti, o almeno di tutti quelli che vogliono realmente vedere e cercare di capire.
    Cyrano

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