Nessun fenomeno al mondo può impedire al sole di risorgere


Credo nelle idee che diventano azioni

giovedì 23 luglio 2009

Trovare un cielo sulla terra. Al di là di dualismo e nichilismo: un approccio pagano

Conferenza tenuta il 15 maggio 1997 in occasione del terzo colloquio del Gruppo d’Orval a Herbeumont dal direttore della rivista Antaios Chistopher Gérard

Signore, Signori, rileggendo i miei appunti, ritrovo una citazione dell’etnologo Michel Leiris, tratta dal suo libro Le ruban au cour d’Olympia (1981), che mi sembra particolarmente adatta al mio intervento: «Trovare un cielo sulla terra». Leiris puntualizza: «L’uomo moderno (…) cerca di fondare la propria ricchezza su quanto il mondo gli dispensa fra alti e bassi. Superficialità, senza dubbio, e pertanto criticabile, ma quanto preferibile alla falsa profondità dell’apparente comprensione globale fornita da una credenza zoppicante».
«Trovare un cielo sulla terra» esprime bene quello che ho voluto indicare nel titolo “ufficiale” forse un po’ scolastico di questa mia chiacchierata: «Al di là di dualismo e nichilismo, un approccio pagano».
Giacché essere Pagano oggi è, a mio avviso, voler superare sia il dualismo delle religioni monoteiste rivelate - che chiamerò per comodità religioni abramiche (Giudaismo, Cristianesimo Islam) - sia il nichilismo, tipico di una modernità singolarmente distruttiva.
Nel precisare «un approccio pagano», ho voluto insistere su un fatto - oggi io mi propongo di presentare soltanto un approccio al paganesimo, nella fattispecie il mio approccio, hic et nunc. Dunque non intendo in nessun modo rappresentare la totalità della corrente neo-pagana contemporanea. Del resto, sono profondamente convinto che esistano tanti approcci al paganesimo quanti sono i Pagani. E questo non è forse nella natura delle cose, dal momento che il tratto caratteristico dei differenti Paganesimi, vecchi o nuovi, europei o no, consiste precisamente in quest’esaltazione dell’infinita pluralità del reale?
Ma vediamo che cos’è in realtà quello che viene chiamato Paganesimo. Il termine si può prestare a confusioni e malintesi, tanto più che esso è stato forgiato dai suoi avversari. Sono infatti i Cristiani che, nel corso del III e del IV secolo, hanno fatto della parola latina paganus (contadino) una sorta d’insulto.
I Pagani erano allora presentati come degli zoticoni, degli antiquati che rifiutavano - sfrontati! - di convertirsi alla vera fede, quella del Cristo. Ancora ai nostri giorni, il termine “Pagano” è talvolta inteso come sinonimo di “barbaro”, di “rozzo”, e addirittura, presso certuni, di “ateo”. Ora, esso non è niente di tutto questo.
Il Paganesimo che io difendo (per esempio nella mia rivista “Antaios”) è agli antipodi della discutibile esaltazione di chissà quale barbarie o quale culto della forza bruta. Lo scrittore ortodosso russo Vladimir Volkoff parla, in uno dei suoi romanzi, di «nietzscheismo da boy-scout vizioso», espressione che mi sembra assai calzante. Se i Pagani hanno sempre reso omaggi alle forze presenti nell’universo, non si tratta per noi Politeisti, né di un culto della violenza e tantomeno d’idolatria.
Quanto alla presunta rozzezza dei Pagani, mi limiterò a ricordare che da millenni questi ultimi hanno sviluppato metafisiche estremamente raffinate (si pensi ai Presocratici greci, alle Upanishad dell’India, alle scuole platoniche, pitagoriche o ermetiche…) e mitologie sontuose di cui l’antropologia strutturale di un Levi-Strauss e il comparatismo di un Dumézil hanno mostrato l’infinita ricchezza. Infine, l’ateismo - non dimentichiamolo - è pressoché sconosciuto nelle società tradizionali. Non parlo qui dell’ateismo di massa, che prolifera nelle nostre società postcristiane. Per questo rimando al libro di Marcel Gauchet sul Cristianesimo come agente del disincanto del mondo (1).
Se dovessi definire (molto) rapidamente il Paganesimo in quanto coerente visione del mondo, direi che esso è fedeltà alla stirpe - considerata nel quadro di una memoria millenari (quella che ci “re-ligat” [religio, religione, è appunto l'atto del religare, collegare - n.d.t.], che ci unisce ai nostri antenati lontani) - radicamento in un territorio (termine da prendere lato sensu) e apertura all’infinito. Potrei ugualmente parlare di partecipazione attiva al mondo, d’equilibrio ricercato fra microcosmo e macro cosmo.
Il Paganesimo è la religione naturale, la religione della natura e dei suoi cicli, la più antica del mondo perché “nata” - ammesso e non concesso che il mondo sia mai nato - con lui. Lungi dall’essere una fissazione di qualche tipo un po’ bislacco o una nostalgia da letterati fermi a qualche mitica Età dell’Oro, oso affermare che il Paganesimo sta per diventare di nuovo la prima religione del mondo. Infatti, se si considerano gli Induisti, gli Scintoisti, i Taoisti, gli animisti e gli adepti - sempre più numerosi - dei culti precristiani d’Europa o delle Americhe (si pensi alla spettacolare rifioritura dello sciamanesimo nell’ex-URSS), dei culti preislamici (Zoroastriani delle regioni turcofone) e persino pregiudaici (penso in particolare ad un gruppo di Ebrei americani che desidera ritornare ai culti politeisti degli Ebrei), si rischia davvero di arrivare a un totale approssimativo di millecinquecento milioni di persone. Il che ne fa, o ne farà presto, il primo gruppo religioso del pianeta. Due potenze nucleari, l’India e la Cina, sono politeiste - una sotto orpelli modernisti, l’altra sotto orpelli marxisti. In piena Pechino si costruiscono templi taoisti, e l’Induismo è divenuto offensivo, dal momento che missioni indù s’installano ai quattro angoli del mondo.
Per concludere questa breve illustrazione della reale importanza e del carattere non aneddotico del Paganesimo moderno, ricordiamo che il Paganesimo è religione ufficiale dell’Islanda dal 1973, che esso è in parte riconosciuto in Gran Bretagna (ospedali, prigioni eccetera) e negli Stati baltici. In Russia, correnti pagane si sviluppano a velocità vertiginosa, nel bene e nel male, visto e considerato il disastro sociale di questo Paese. Interessarsi al Paganesimo mi sembra dunque pertinente. Quello che più spesso si rimprovera ai Pagani, antichi e moderni, è il passatismo. E lo stesso rimprovero che veniva mosso dai marxisti a quei poveri pazzi che non consideravano Marx e Lenin come gli orizzonti insuperabili del pensiero. Questo rimprovero - di non essere «nel senso della storia - è del tutto insensato, dal momento che il Paganesimo non ha una visione lineare del tempo, un tempo visto come avanzata costante verso il Progresso (la Parusìa) a partire da un momento ben definito (la nascita del Cristo etc.). Questa concezione segmentata e lineare del tempo c’è estranea.
Noi Pagani concepiamo il tempo come ciclico, proprio come i cicli cosmici (quello solare, per esempio, con equinozi e solstizi). In realtà il Paganesimo è una religione dell’anno, e dunque della verità. Il tempo dei Pagani è quello dell’Eterno Ritorno, simile alla grande Ruota che gira e gira senza posa.
Noi non crediamo né alla creazione né alla fine del mondo. Per noi, non ci sarà apocalisse, ben sì innumerevoli fini di cicli, eternamente ricominciati. Una successione senza inizio né fine di nascite, crescite e declini, di crepuscoli seguiti da rinnovamenti, di cataclismi seguiti da rinascite, in seno a un Ordine (in greco: kosmos) intemporale, in cui uomini e Dei, mortali e Immortali, hanno il loro posto e la loro funzione. Il mito del Progresso non ci appartiene. Noi non crediamo al senso della storia (concetto totalitario, a mio avviso), alla “fine” del Paganesimo, alla “morte” degli Dei. Di conseguenza, il rimprovero di adorare divinità morte ci lascia indifferenti.
I nostri Dei, le nostre Dee non sono morti, per la semplice ragione che non sono mai nati. Apollo e Dioniso, Cernunno ed Epona, Mithra e Perkunas sono eternamente presenti al nostro fianco. Citiamo Eraclito (framm. 30): «Il mondo di fronte a noi - il medesimo per tutti - non lo fece nessuno degli Dei né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà, fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si estingue secondo misure». Questo breve frammento vecchio di venticinque secoli traduce le linee di fondo del pensiero pagano: eternità del mondo, ciclicità del tempo, comunità dei mortali e degli Immortali…
Se il tempo è lineare, come vorrebbero le teologie giudeo-cristiana e razionalista, il Paganesimo è impensabile, perché “morto”, e scandaloso, perché si muove in direzione contraria al sacrosanto senso della storia. Ma se, come tutti noi avvertiamo, il tempo è ciclico, la prospettiva muta radicalmente. Il Paganesimo non è mai potuto morire: perché, a immagine e somiglianza delle innumerevoli divinità che popolano i suoi innumerevoli pantheon, esso non è mai nato. Se le sue forme antiche (liturgie, templi…) hanno ceduto il passo ad altre che pure vi si sono largamente ispirate, tuttavia restano gli archetipi, che sono essi stessi eterni. Un bell’esempio è quello del Cattolicesimo medioevale, rimasto molto pagano: è quello che personalmente chiamerei il Pagano-Cristianesimo (fuochi di san Giovanni, e tutta la mitologia cristiana) (2).
Per meglio comprendere questa visione pagana del mondo, è indispensabile superare i blocchi mentali - i famosi “ostacoli epistemologici” di Bachelard - indotti dal modo di pensare giudeo cristiano. Marcel Détienne (uno dei maggiori ellenisti contemporanei), puntualizza nella sua illuminante prefazione al bel libro del professor W.F. Otto dedicato agli Dei della Grecia: «Dietro il falso sapere dell’intellettuale e dell’universitario, spunta il grande avversario (…): il cristianesimo, che fa da schermo fra gli Dei greci e noi, e che ci ha imposto in maniera insidiosa un certo modo di pensare la religione. Dapprima inoculandoci il virus dell’interiorità: in base al quale la religione è inseparabile da una relazione personale col Dio, che l’unico contatto possibile con la divinità deve avvenire attraverso un soggetto individuale - un Io che apprenderebbe il sacro grazie a una sorta di protesi dell’anima, l’anima inquieta e pavida delle civiltà malate. Altro male, non meno virulento: che il sentimento religioso nascerebbe da un bisogno di salvezza che va di pari passo con la trascendenza: che la finalità degli Dei consiste nel liberare gli uomini da questo mondo, nel farli salire accanto a sé, nello strapparli a una natura dalla quale sono essi stessi totalmente disgiunti. Con la sua angoscia di salvezza, Le sue gioie segrete di anima peccatrice, il cristianesimo è soprattutto un ostacolo epistemologico: una malattia, uno stato di languore al quale bisogna strapparsi e dal quale bisogna guarire se si vuole riscoprire la figura autentica degli Dei della Grecia» (3).
La citazione è lunga, ma notevole come perfetto esempio di teologia negativa del Paganesimo. Marcel Detienne ha colto benissimo le differenze fondamentali tra Paganesimo e rivelazioni abramiche. Qualcuno potrebbe obiettare che, nell’Antichità, esisterono delle correnti, minoritarie ma privilegiate dalla ricerca moderna, come l’Orfismo o i Misteri, che conoscono questa ricerca di salvezza personale. Semplicemente, noi non ci abbeveriamo a questa fonte, alla quale preferiamo la religione civile arcaica(4).
Un altro ellenista, Jean-Pierre Vernant, professore al Collegio di Francia, si è già posto la questione di sapere in quale modo noi potremmo vedere la Luna, Selene, con gli occhi di un Greco, cioè di un Pagano: «Ho potuto provarci in gioventù, durante il mio primo viaggio in Grecia. Navigavo di notte, d’isola in isola; sdraiato sul ponte guardavo, sopra di me, il cielo in cui brillava la luna, luminoso volto notturno, che diffondeva il suo riverbero chiaro, immobile o danzante, sulla cupa distesa del mare. Ero ammirato, affascinato da quel chiarore dolce e strano che bagnava le onde addormentate; ero commosso come davanti ad una presenza femminile, vicinissima e remota ad un tempo, familiare e tuttavia inaccessibile, il cui splendore fosse venuto a visitare l’oscurità della notte. Ecco Selene, mi dicevo, notturna, misteriosa e brillante - è Selene che io vedo» (5) Il professor Vernant ha ragione, in questa poetica rievocazione della sua gioventù, a parlare di “visione”. Il Paganesimo è soprattutto una conversione dello sguardo, quello che si rivolge su di un universo del quale noi siamo, insieme alle Dee e agli Dei, una parte integrante. Per meglio assimilare questa visione pagana, questo sguardo pagano, dobbiamo liberarci dal modello del “credente” delle religioni abramiche. Questo termine è realmente privo di senso per un Pagano: egli non crede, aderisce. Allo stesso modo, egli non si converte ad un’altra religione, che sarebbe l’unica vera (e che negherebbe ipso facto tutte le altre perché false, barbare o rozze). Semplicemente, il Pagano ridiviene quello che è sempre stato, perché l’anima è naturalmente pagana. Anima naturaliter pagana.
Liberarsi, dicevo, dal modello del credente. Uno che crede di potersi assicurare la salvezza individuale ed eterna quaggiù e nell’aldilà, in seno ad una Chiesa che, di fronte agli “infedeli” e ad altri eretici, deterrebbe essa sola il monopolio del Vero e del Bene, e che sarebbe l’unica abilitata a conferire al credente i sacramenti che fanno di lui un “fedele” in opposizione agli infedeli”, gli altri.
La nostra visione non è dualista, e noi respingiamo come prive di senso le opposizioni artificiali fra Dio creatore e creature, cielo e terra, anima e corpo, credenti e non credenti, ortodossi ed eretici etc. Il Paganesimo è olistico, non dualista, e il nostro cammino è soprattutto ricerca di legami più che di rotture. Ancora una volta, noi non neghiamo l’esistenza, nel Paganesimo antico, di correnti dualiste, alle quali però non facciamo riferimento.
Gli Dei e le Dee del Paganesimo non sono né unici né onniscienti. Essi non hanno creato questo mondo, ma sono nati in esso e attraverso esso. A mano a mano che l’universo, ciclo dopo ciclo, si organizzava a partire da entità primordiali (Urano e Gaia, per esempio), essi sono scaturiti per generazioni successive. I nostri Dei non sono persone, con le quali stabilire relazioni personali, ma Potenze. Essi incarnano la pienezza dei valori positivi: bellezza, splendore, forza, giovinezza…
Nel Paganesimo, esiste una comunità d’uomini e Dei, di mortali e Immortali. Nel Simposio Platone parla appunto di «comunanza reciproca d’uomini e Dei». Nel Gorgia, egli precisa: «i dotti affermano che il cielo e la terra, gli Dei e gli uomini sono legati insieme dall’amicizia, il rispetto dell’ordine, la moderazione e la giustizia, e per questa ragione essi chiamano mondo l’insieme delle cose e non disordine e sregolatezza». Molti secoli più tardi, Heidegger dirà: “La terra e il cielo, gli esseri divini e quelli mortali formano un tutto unico”.
Gli Dei non sono dunque creatori del mondo ex nihilo: come creare qualcosa a partire dal nulla? Essi sono emanazioni del mondo, nel quale si manifestano. Questo concetto di manifestazione è fondamentale nella nostra religione naturale, e si oppone a quello di rivelazione, che per definizione è soprannaturale. Allo stesso modo, noi ignoriamo dogmi e profeti, papi e curati, ortodossi ed eretici, sette e guru.
Il Pagano è nel mondo, che si sforza, in tutta umiltà, di decifrare per meglio cogliere le innumerevoli manifestazioni del divino. E’ Schiller, mi pare ne Gli Dei della Grecia, che diceva: «agli sguardi iniziati, ogni cosa indica la traccia di un. Dio» - ancora questa idea dello sguardo! Il Paganesimo non lascia mai che l’uomo si ripieghi su se stesso, sotto il peso del peccato originale. Al contrario, essere pagano consiste precisamente nell’aprirsi all’esperienza del mondo. Vorrei soffermarmi per un momento sull’importanza dello sguardo, che i Greci chiamavano theorìa, osservazione delle manifestazioni del divino. Essa ci riporta all’antica concezione dell’èn tò pàn, che si ritrova sia presso i Presocratici che nelle Upanishad: la dottrina non dualista dell’unità. In questa visione, il mondo non è visto come intimamente malvagio (”Il quaggiù”, termine quasi peggiorativo in francese), incline al peccato, valle di lacrime da attraversare in tutta fretta prima di potere accedere ad un qualche ipotetico “retromondo”. Non bisogna fuggire il mondo, ma affrontarlo, senza Illusioni né speranze di salvezza.
C’è dunque una reale accettazione del mondo, con tutte le sue infinite imperfezioni, ma considerato pur sempre come manifestazione del genio divino. La sua contemplazione attiva non può che rafforzare il nostro sentimento d’identità col grande Tutto. Queste concezioni intimamente pagane sono sopravvissute in seno alla cristianità europea. Le si ritrova, soffocate, in Scoto Eriugena, Meister Eckhart, Nicola Cusano… Il dogma cristiano del Dio creatore esterno al mondo, sua creazione, è sempre stato contestato. E la famosa tentazione panteista, tanto vilipesa dai teologi ufficiali, gelosi custodi del Vero.
Già Cicerone, nel De divinatione, precisa: «tutto è pieno di spirito divino e di senso eterno, di conseguenza le anime degli uomini sono mosse dalla loro comunità d’essenza con le anime degli Dei». Ricordate la citazione di Platone, poco più sopra? Ippocrate diceva, secoli prima di Cicerone: «pànta thèia kàt anthròpina» [ le cose sono divine e umane al tempo stesso - N.d.T.]. C’è del divino nel mondano e del mondano nel divino… Ho citato prima W.F. Otto, professore all’Università di Tubinga, oppositore del nazionalsocialismo e seguace di Zeus Olimpio. Nel suo notevole saggio sugli Dei della Grecia, dice: «Non è a partire da un aldilà che la divinità opera nel foro interiore dell’uomo, o nella sua anima, misteriosamente unita ad essa. Essa è tutt’uno col mondo. Essa si para dinanzi all’uomo a partire dalle cose del mondo, quando egli è in cammino e partecipa al fermento vitale del mondo. L’uomo fa l’esperienza del divino non attraverso un ripiegamento su di sé, bensì attraverso un movimento verso l’esterno». Il Paganesimo ignora dogmi e catechismi. Nessun libro sacro ci prescrive in modo autoritario quello che dovremmo “credere”. La nostra libertà di pensiero resta intatta. Soltanto, il nostro compito consiste nell’onorare Dei e Dee per mezzo di riti, giacché il Paganesimo è una religione d’opere più che di fede. Si tratta, è vero, di una religione vissuta nei gesti: il saluto al Sole e alla Luna, i solstizi e gli equinozi, l’offerta di un grano d’incenso o di qualche fiore…
Gli Dei non sono persone preoccupate della nostra sorte, bensì Potenze, mai particolari in sé- si tratta sempre dell’Essere del mondo tutto intero, nella manifestazione che gli è propria. Noi Pagani non ci attendiamo alcun soccorso, alcuna salvezza dai nostri Dei. La loro sola esistenza, la sola presenza di queste entità inaccessibili e tuttavia familiari basta a riempirci di gioia, a consolarci dei soprusi dell’esistenza. Se noi non ci aspettiamo nulla dai nostri Dei, anch’essi dal canto loro sono indifferenti alla nostra sorte, ed è giusto così. La morale della retribuzione ci è dunque estranea. Venticinque secoli fa - ieri - Euripide ha espresso perfettamente questo modo di sentire nella sua tragedia Ippolito. Ecco il dialogo che si svolge fra Artemide e il protagonista al momento della sua morte:
« - Artemide: Addio, non mi è permesso di vedere i morti, né di lasciare che il mio sguardo sta offuscato dall’ultimo respiro di un moribondo. E già ti vedo vicino a questo passo doloroso.
- Ippolito - Vai pure. E addio dunque, te felice! Possa tu rompere senza soffrire una lunga amicizia».Superbo esempio di superiorità e di distanza, agli antipodi d’ogni sentimentalismo. E qui, indubbiamente, il grande merito di questa filosofia, di questo atteggiamento: mai esitare a dire le cose come stanno, senza abbellirle né lamentarsi, senza lusingarsi, senza nascondere nulla e senza cercare la minima illusione consolatrice.
Ed eccoci ad un elemento centrale nella concezione pagana del mondo: il Senso del Tragico. Gli Dei non sono onnipotenti, per quanto siano simboli di pienezza. Essi non possono tutto, perché la loro potenza è limitata dal Destino - Virgilio lo chiamava «inexorabile Fatum». Esiste dunque un limite impossibile da superare. Presso i Greci sono le Moire, presso i Romani le Parche, presso gli Scandinavi, le Nome - che filano il destino proprio a ciascuno (6). Queste potenze impersonali e inflessibili sono l’Ordine inviolabile del mondo. Esse sono al di sopra degli Dei, come ricorda Omero: «nemmeno gli Dei, dice Atena, possono allontanare la morte dall’uomo che prediligono quando la fatale Moira colpisce».
Il senso del Tragico consiste appunto nell’accettazione del Destino: amor Fati. Esso è, del pari, coscienza acuta dei propri limiti e lucido rifiuto di ogni consolazione, considerata cosa indegna di un uomo libero. Un bell’esempio di personaggio tragico è presentato da Jacqueline de Romily nel suo ultimo libro dedicato all’eroe omerico Ettore (7).
Gli Dei del Politeismo contemporaneo non concedono alcuna ricompensa. E la nostra etica dell’onore che ci comanda di trasmettere un nome senza macchia, di essere fedeli alla parola data e di rispettare i contratti. Il Mithra degli Indo-Iraniani è proprio il Dio amico, quello del contratto.
Il Paganesimo è una religione non del peccato, ma dell’errore. L’errore supremo è quello che i Greci, nostri maestri, chiamavano hybris: la mancanza di moderazione, dettata dall’orgoglio, che spinge l’uomo accecato a scagliarsi contro l’ordine cosmico. Il più terribile esempio di hybris contemporanea è dato dai totalitarismi moderni, i quali, a furia di voler «cambiare l’uomo» in realtà lo avviliscono.
Il Paganesimo non postula alcun riscatto. Si tratta, è vero, di una religiosità di questo mondo, una religiosità dell’immanenza: il mondo è sacralizzato. La cosa sembrerà strana per quanti continuano a credere che la sola vera religione sia quella dell’aldilà. Ma essere Pagano oggi vuol dire anche liberarsi da questo genere di cascami. Il Paganesimo non è una religione del terrore, del disprezzo di sé, bensì della piena salute, fisica e psichica: mens sana in corpore sano, diceva Giovenale (Satire, X, 356). Inoltre il Paganesimo si caratterizza, idealmente parlando, per il suo gusto dell’equilibrio. Sono ancora una volta i Greci a tracciare per noi la via da seguire, col concetto delfico di Méden Agan, (nulla di troppo), illustrato dall’eccezionale senso delle proporzioni dell’arte ellenica. Il Paganesimo non è una religione di salvezza (anche se certi culti misterici che assicurano la salvezza agli adepti vi trovano un posto): si tratta invece di una religione terrena, mirante ad assicurare la pienezza ottimale in questo mondo, hic et nunc. Vi si cercherà invano la minima ossessione dell’aldilà. La morte non vi è considerata come elemento centrale (col corollario di un moralismo soffocante, e l’ipocrisia che ne scaturisce). La morte è una tappa nel processo eterno di trasmissione: come diceva Nietzsche - il filosofo col martello - «la Ruota gira» e la danza degli elementi continua, senza inizio né fine. Alla domanda angosciosa «che c’è dopo la morte?», noi aggiungeremo l’altra - «e prima della nascita?». Per noi, i cicli sono cominciati ben prima della nostra nascita e continueranno ancora per molto dopo la nostra scomparsa, a maggior gloria degli Dei. Taliesin, poeta gallese del Medio Evo, ha ben illustrato quest’intuizione (8):

« Sono stato rivestito di un’altra forma.
Sono stato salmone azzurro.
Sono stato cane. Sono stato cervo.
Sono stato daino sulla montagna.
Sono stato palo. Sono stato vanga.
Sono stato scure salda in mano.

Sono stato gallo variopinto
Signore di galline schiamazzanti.
Sono stato stallone nella scuderia.
Sono stato toro nella fattoria.
Sono stato setaccio del mugnaio.
Aia del coltivatore.
Sono stato seme nel solco.
Sono cresciuto sulla collina.
Chi mi aveva seminato mi ha raccolto».

Questo bel testo è più che sufficiente per concludere questa rapida presenta zione del Paganesimo, che, lo ricordo, è soltanto un approccio pagano. Ho voluto citare qui tutta una serie di testi - da Eraclito a Vernant, da Cicerone a Romilly, non per pedanteria ma per meglio mostrare che io sono soltanto una maglia di una catena plurimillenaria. In realtà, io mi considero «parlato» da queste testimonianze di una fede secolare, angariata, perseguitata, soffocata - ma sempre rinascente e indomita.
Per concludere, affido alla vostra meditazione il seguente testo, dovuto alla penna di Friedrich Hielscher, amico dei fratelli Jünger, oppositore del nazionalsocialismo e fondatore di un gruppo neo-pagano. Nelle sue memorie, egli cita queste parole di un suo amico, il pensatore ebreo Martin Buber: «Sapete, - disse Buber chinandosi verso di me - sapete, signor Hielscher esistono soltanto due possibilità: o Dio è il Creatore che ha creato tutto a partire dal nulla, il Tutto Altro, Colui che sta di fronte al mondo, come diciamo noi Ebrei e le nostre Sacre Scritture, oppure egli è al tempo stesso il Tutto e l’Uno, e il mondo si trova in lui, come diceva Goethe e come dite voi stessi oggi. Nel primo caso, io non posso innalzarmi fino a Lui, perché la creatura che io sono non potrebbe mai superare la distanza che ci separa; nel secondo caso, io non ho alcun bisogno di elevarmi fino a Lui, dal momento che io sono in ogni modo in Lui. E allora, perché tutte queste polemiche?»(9).

Note

1 M. Gauchet, Le Désenchantement du monde, Gallimard, Paris 1985
2 P. Walter, Mythologie chrétienne, Entente, Paris 1992
3 W. F. Otto, Le Dieux de la Grèce, Payot, Paris 1981
4 J. P. Vernant, Mythe et religion en Grèce ancienne, Seuil, Paris 1990
5 R. Boyer, Yggdrasill. La religion des anciens Scandinaves, Payot, Paris 1992
6 J. P. Vernant, (a cura di), L’Homme grec, Seuil, Paris 1993
7 J. De Romilly, Hector, Ed. de Fallois, Paris 1996
8 Cit. in: J. Sterckx, Le Dieux protéens des Celtes et des Indo-Européens, S.B.E.C., Bruxelles 1994
9 F. Hielscher, cit. in: “Nuovelle Ecole” n. 48, spécial Ernst Jünger, Paris 1996 E-mail: nuovelle-ecole@labyrinthe.fr

* * *

Traduzione di Alessandra Colla e Manuela Badariotti

Pubblicato sul n. 156, (settembre 1997) della rivista Orion -


Christopher Gérard

Un breve commento.
C.Gérard difende in modo brillante e intelligente il paganesimo,tuttavia si può obiettargli di non aver messo in risalto che la natura degli antichi non è la natura oggettivata dei moderni e soprattutto che vi è il rischio di fare la difesa di un naturalismo volgare,se non di un materialismo grossolano, se non si comprende che il non-dualismo non è negazione di ogni trascendenza,altrimenti sarebbe una forma di monismo.
Riconoscere che vi è uno "spazio interiore del mondo"(Rilke)significa sforzarsi di aprire quell'occhio spirituale che permette all'uomo si superarsi,di trascendersi cogliendo la presenza e l'assenza del tutto nelle parti:che il mondo sia apparenza,o come sosteneva Colli es-pressione di Qualcosa che espressione non è,non esclude certo una valutazione positiva del mondo né implica una sorta di rassegnazione nei confronti del negativo.
Le ragioni del paganesimo si possono (e si devono ,ne sono convinto anch'io)difendere senza rifiutare duemila anni di storia e di cultura(come dimenticare,ad esempio,che la teo-logia dell'icona ci ha insegnato la profondità "metafisica"del volto ?).
Infine,mi pare difficile poter dubitare che i grandi mistici delle tre religioni monoteiste siano più" vicini"allo spirito del paganesimo di quanto lo siano la maggior parte dei cosiddetti neopagani.Quanto afferma Gérard,riguardo al "Pagano Cattolicesimo" del Medioevo,merita ancora di essere conosciuto,compreso e apprezzato,soprattutto ora che la "deellenizzazzione" del cristianesimo ha trasformato questa religione in una dottrina morale,quasi del tutto priva di un autenticoi fondamento metafisico e spirituale.


Fabio Falchi

martedì 14 luglio 2009

I ROM NON SONO RUMENI...... Segnalato da Costel Antonescu

In Italia

Gli zingari in Italia, come nel resto del mondo, rappresentano una comunità eterogenea, dalle mille sfumature e dalle mille espressioni. Mille sono anche gli anni della storia degli zingari divisi essenzialmente in tre gruppi principali: Rom, Sinti e Kalé (gitani della penisola iberica). A questi gruppi principali si ricollegano tanti gruppi e sottogruppi, affini e diversificati, ognuno con proprie peculiarità. Essi hanno un'origine comune, L'india del nord e una lingua comune, il romanès o romani ©hib diviso in svariati dialetti. L'opinione pubblica, che dei Rom e Sinti conosce poco o niente, tende a massificare e a confondere i diversi gruppi zingari, soprattutto tende a condannare e ad emarginare senza capire. La popolazione zingara in Italia rappresenta lo 0,16% circa dell'intera popolazione nazionale essendo stimati in un numero di persone compreso fra le 80.000 e le 110.000 unita. Sono presenti solo Sinti e Rom con i loro sottogruppi. I Sinti sono soprattutto insediati nel nord dell'Italia e i Rom nell'Italia centro-meridionale. Essi rappresentano gli zingari di antico insediamento a cui hanno aggiunti vari gruppi zingari di recente e di recentissima immigrazione. Circa 1'80% degli zingari che vivono nel nostro Paese hanno la cittadinanza italiana, il 20% circa e rappresentato da zingari extracomunitari, soprattutto provenienti dai territori della ex-Jugoslavia. Circa il 75% e di religione cattolica, il 20% di religione musulmana e il 5% raggruppa: ortodossi, testimoni di Geova e pentecostali.

L'arrivo in Italia

L'origine indiana degli zingari si è scoperta nel XVIII secolo attraverso lo studio della lingua zingara. Con lo studio filologico si è potuto ricostruire ipoteticamente l'itinerario seguito dagli zingari nel loro lungo cammino in quanto essi prendevano a prestito parole dai popoli con cui venivano a contatto. Dall'India del nord sono arrivati in Europa attraverso la Persia, l'Armenia e l'Impero Bizantino. Dai Balcani si sono diramati in tutta Europa, arrivando anche in Russia e, con le deportazioni, nelle Americhe e in Australia. Sono molti gli studiosi che credono che i Rom abruzzesi, fra i primi gruppi zingari arrivati in Italia, siano arrivati attraverso l'Adriatico provenienti dalle coste albanesi e greche, probabilmente per sfuggire alla repressione dei turchi ottomani. A sostegno di tale tesi si e fatto riferimento all'assenza nella parlata dei Rom abruzzesi di termini tedeschi e slavi. Ma si può obiettare: i turchi ottomani conquistarono tutta la Grecia e l'attuale Albania fra il 1451 e il 1520 (L. Piasere), mentre i Rom in Italia arrivarono molto tempo prima (il primo documento che attesta l'arrivo degli zingari e del 1422 ma ci sono molti indizi che inducono a credere che i Rom arrivarono ancora prima); i Rom abruzzesi hanno nella loro parlata sia termini tedeschi come tiÒ, glàse, brèg (ted. tiÒch = tavolo, glas = bicchiere, berg = montagna), sia termini serbo croati come plaxtà = lenzuola (s.c. phahta), niÒte = nulla (s. c. nista), a Òtar = catturare, afferrare (s.c. staviti), nikt (nikkete) = nessuno (s.c. nikto), a pukav. = fare la spia, denunciare (s.c. bukati), po (pro) = per (s.c. po); inoltre, perché i Rom con le loro carovane avrebbero dovuto viaggiare per via mare, via a loro scomoda, inusuale e all'epoca minacciata dai turchi, se per secoli avevano dimostrato di spostarsi con sicurezza e rapidità per via terra? Tutto ciò induce a credere che il grosso dei Rom abruzzesi sia arrivato in Italia dal nord per via terra, proveniente, dall'Albania o dalla Grecia, attraversando la ex-Jugoslavia e territori di lingua tedesca. Non è da escludere che effettivamente piccoli nuclei siano arrivati in Italia attraverso l'Adriatico assieme ad altre minoranze come Serbo -Croati e Albanesi. Tutto è comunque ancora da provare. Da questa piccola introduzione si può ben comprendere come sia difficile ricostruire la storia dei Rom sia perché i documenti a disposizione sono pochi ed incompleti sia perché i Rom non hanno lasciato nessuna testimonianza scritta. La storia dei Rom é una storia che non nasce dall'interno della sua comunità proprio perché essi rappresentano un popolo senza scrittura che affida alla "memoria" e alla tradizione orale il compito di trasmettere la propria storia e la propria cultura. La storia dei Rom è fatta dai Caggé (non zingari) attraverso le osservazioni di quanti ai Rom si sono in qualche modo interessati per la curiosità e la meraviglia che suscitavano o attraverso le disposizioni delle autorità pubbliche. Così dalla lettura delle Cronache del XV secolo si possono ricostruire sommariamente gli itinerari seguiti dagli zingari in Europa. Il primo documento che segnala l'arrivo degli zingari in Italia è quello del 18 luglio 1422, un'anonima cronaca bolognese contenuta nella Rerum Italicarum Scriptores di Ludovico Antonio Muratori: "A di 18 luglio 1422 venne in Bologna un duca d'Egitto, il quale aveva nome Andrea, e venne con donne, putti e uomini del suo paese, e potevano essere ben cento persone...... " Dalle "grida" e dai bandi che dal 1500 si sono susseguiti fino al 1700 si possono dedurre le politiche attuate dalle autorità nei confronti degli zingari: politiche di espulsione, di reclusione, di repressione, di deportazione, ovvero politiche votate al più completo rifiuto. (Attualmente siamo nella fase della politica di assimilazione).

I Rom abruzzesi

I Rom abruzzesi, con cittadinanza italiana, rappresentano dunque uno dei primissimi gruppi zingari arrivati in Italia e grazie alla lunga permanenza sono relativamente più inseriti nel contesto sociale ed economico della società maggioritaria rispetto ad altri gruppi di recente immigrazione. In passato le attività principalmente esercitate erano quelle che lasciavano spazio all'essere e alla creatività e quelle che facilitavano i rapporti umani. Da qui l'attività di musicisti, di fabbri calderari, di commercianti di cavalli, di lavoratori di metalli. Il progresso tecnologico, il boom economico, lo sviluppo delle attività industriali hanno soppiantato le attività tradizionali e la maggioranza dei Rom ha dovuto operare una riconversione economica, ma il modo di porsi di fronte alla vita e di interiorizzarla e soprattutto la struttura sociale dei Rom e rimasta nei secoli pressoché immutata. L'istituzione fondamentale su cui si regge la società romanes e la famiglia, intesa nel senso più ampio, come gruppo cioè che si riconosce nella discendenza da un antenato comune. Da sempre oggetto di violenza i Rom hanno rafforzato i rapporti endogamici e i vincoli di solidarietà familiare, mantenendo invece verso l'esterno un atteggiamento ostile. Vi è in questo un profondo senso di sfiducia e un'intima esigenza di difesa. Il sistema sociale e vissuto nelle profonde componenti umane, basato essenzialmente sul severo rispetto delle norme etico-morali che regolano e disciplinano la comunità romanes per garantire ai singoli individui la piena integrazione. Essi tutelano la dignità e l'onore del Rom. Non esistono classi o gerarchie sociali se si esclude quella semplicistica di ricchi e poveri, cosicché anche il più ricco e in relazione con il più povero e viceversa in base ad un principio di eguaglianza che riflette una ottica di vita di tipo orizzontale. In questo contesto il Rom abruzzese si sente parte di una totalità singolare che lo porta a differenziarsi sia dai caggé (non zingari) sia dagli altri gruppi zingari (Rom stranieri, Sinti, Kalé). ciò si traduce in un proprio stile di vita con modi proprio di esprimersi e di comportarsi. Alcune norme sono vincolanti, ad esempio: alle romniá abruzzesi non e assolutamente consentito dall'etica romanès di fumare, di indossare pantaloni, di truccarsi, di indossare costumi da bagno al mare, di giocare d'azzardo. Le donne che vogliono avere una buona reputazione ed intendono essere rispettate dai Rom si adeguano al rispetto di tali norme morali, che non le confonde con gli altri. Un Rom si sente perfettamente sicuro in seno alla sua comunità, costituita dall'insieme di tanti singoli gruppi parentelari dove non esistono né regine né tantomeno re come invece tende a far credere il sensazionalismo giornalistico che copre con la fantasia e l'immaginazione le proprie carenze informative. Il mondo' romano 'vien perciò presentato o in termini mitologici o in termini criminalizzanti, l'una e l'altra forma sono delle distorsioni che alterano il mondo zingaro producendo stereotipi negativi e pregiudizi di cui i Rom restano vittime. La sicurezza del Rom deriva dalla tradizione che lo pone sicuro di fronte al futuro e dalla coesione, che lo pone sicuro davanti all'imprevedibile. Tutto ciò si traduce in un forte equilibrio psicologico. Le relazioni ben strette fra educazione, coesione ed equilibrio psicologico sono minacciate con i contatti conflittuali esterni. Si pensi ad un bambino Rom che frequenta la scuola pubblica: entrare a contatto con una realtà che presenta dei modelli di vita funzionale alla società maggioritaria a cui e difficile per lui adattarsi, gli provoca inevitabilmente uno smarrimento in quanto è costretto ad operare una difficile scelta che nella maggior parte dei casi lo induce a ripercorrere la strada degli affetti familiari; da adulto mostrerà un atteggiamento ostile verso quella società non ancora preparata ad accoglierlo se non attraverso l'assimilazione. Lo stesso dicasi dei matrimoni misti in cui l'individuo esterno viene a rappresentare un elemento di disturbo se non riesce ad integrarsi. Il cardine della struttura sociale dei Rom e la famiglia patriarcale, dove il vecchio, considerato saggio, ne é rappresentante riconosciuto. Ci sono Rom che vengono esclusi per le loro pessime qualità morali, sono considerati "gavalé" e sono derisi e scherniti. I frequenti contatti all'interno del mondo romano hanno da sempre attivato una fitta rete di comunicazione interna che porta i Rom ad essere a1 corrente di ciò che accade a famiglie zingare anche molto distanti. I mass media rappresentano oggi, assieme alle organizzazioni tentacolari pseudo-zingare, la più grande minaccia all'esistenza dei Rom poiché infondono modelli di vita che allontanano i giovani dalla tradizione facendo allargare le maglie delle relazioni sociali e familiari, creando anche nuovi gusti e nuove esigenze che alterano l'etica romanès e che infondono nei Rom l'arrivismo e la necessità di possedere a tutti i costi il superfluo. Da qui le attività illecite. I Rom non preparati alla maniera dei caggé, cadono nel tranello. Cerchiamo ora di capire e di conoscere alcuni aspetti fondamentali della cultura e della vita dei Rom abruzzesi: la lingua, il sistema giuridico, la festa (fidanzamento e matrimonio), la morte.

La lingua

La lingua dei Rom abruzzesi detta "romanès" o "romaní ©hib" è strettamente imparentata con le lingue neo-indiane e conserva ancora fedelmente un gran numero di vocaboli di origine indiana. La lingua romani è arricchita di imprestiti persiani, armeni, greci, serbo-croati, di alcuni vocaboli tedeschi e di elementi dialettali dell'Italia centromeridionale a testimonianza dell'itinerario seguito dai Rom nel lungo cammino iniziato dal nord-ovest dell'India verso occidente.

martedì 7 luglio 2009

BENE COMUNE E RAGIONE MERCANTILE

Progressisti e liberisti sono soliti obiettare, a coloro che criticano la società di mercato e che ritengono che senza un’idea di bene comune, condivisa dai membri di una comunità, il legame sociale non possa non deteriorarsi, che il bene comune è una nozione troppo vaga, che denota più uno stato d'animo, che qualcosa di veramente rilevante sotto il profilo politico.

Si tratta tuttavia di un'obiezione che si può respingere con relativa facilità, se si conoscono le opere di un grande economista e storico dell'economia: Karl Polanyi (1).

Avvalendosi di una sofisticata metodologia multidisciplinare e della collaborazione di alcuni tra i massimi studiosi del mondo antico, Polanyi riesce a provare che la comunità "pre-moderna" era caratterizzata da un'economia "embedded", ossia incastonata in una struttura istituzionale assai complessa e articolata. Ciò era possibile anche per il fatto che lo scambio delle merci era un'attività economica che presupponeva la reciprocità (ad esempio, se un contadino si faceva male, gli altri contadini svolgevano anche il suo lavoro, dato che ciascuno di essi sapeva che se non avesse potuto fare il proprio lavoro, gli altri in virtù di un'obbligazione reciproca lo avrebbero fatto per lui) e la redistribuzione della ricchezza.

Soltanto con la Rivoluzione tecnico-scientifica prima e industriale poi, lo scambio delle merci diventa predominante a tal punto da poter progressivamente orientare tutte le attività economiche, sociali e culturali, mediante la formazione di un'Alta finanza che rende possibile un processo di espansione "esterna" (l'imperialismo) e "interna" (colonizzazione dei mondi vitali e ristrutturazione della rappresentazione sociale del tempo e dello spazio in funzione di un’ideologia mercantile).

Viene così a predominare, prima in Europa e in seguito in ogni parte del mondo, la forma mentis del mercante, dell'homo oeconomicus, che mercifica la Natura, il Lavoro e la Moneta; ovvero, secondo lo studioso di origine ungherese, si attua una radicale trasformazione della Terra e dell'Uomo, che corrode la base stessa del vivere comune, in quanto né la Natura (dato che è l'ambiente grazie al quale gli uomini vivono), né il Lavoro (dato che è una "merce" che pensa, vuole e sente) né la Moneta (dato che esprime le relazioni di scambio delle merci, secondo una logica che è di necessità anche di carattere sociale e politico) sono "merci".

Il fatto che Natura, Lavoro e Moneta si possano considerare "mere merci", occulta ma non cancella la loro struttura ontologica differente, il che spiega non solo le crisi ricorrenti della società capitalistica, ma anche e soprattutto lo spezzarsi di ogni legame sociale e la contrazione sia della sfera personale sia della sfera pubblica a vantaggio di un mercato ipertrofico, che comporta il totale controllo delle relazioni sociali ad opera di tecnostrutture private (anche quelle cosiddette pubbliche sempre più operano come fossero soggetti privati, vuoi perché sono strumenti di determinati gruppi di interesse, vuoi perché si regolano e sono organizzate in base a schemi che dipendono dal mercato) ossia di oligarchie tecno-plutocratiche transnazionali.

Le conseguenze di questa "Grande Trasformazione" vengono quindi più mascherate che spiegate se s’impiega il termine, apparentemente neutro ma che in realtà connota una ben precisa ideologia, "modernizzazione" per giustificare l'annientamento delle nostre "identità differenziate" e la spoliticizzazione della sfera pubblica.

Si comprende allora che cosa significa "bene comune": Natura, Moneta e Lavoro, infatti, designano un sistema di relazioni tra individui differenziati, che si fonda su molteplici forme di sapere non riducibili ad astratti modelli logico-matematici, utili certo a potenziare l'agire strumentale ma del tutto inadeguati a strutturare e comprendere l'agire comunicativo.

Ancor più degno di nota è che Polanyi, che pure era un socialista fabiano e perciò non aveva pregiudizi per quanto concerne una visione "progressista" della storia, dimostri che la comunità antica (la Gemeinschaft), contrariamente a quanto viene affermato da chi si ostina ancora a fare l'apologia del "mito" del progresso, non era affatto statica o immobile, bensì era stabile, vale a dire che il mutamento "scorreva" in altri canali istituzionali rispetto all'attuale società di mercato (la Gesellschaft): arte, politica, religione erano, ad esempio, mondi vitali estremamente ricchi e variegati, in grado di articolare una realtà multidimensionale di cui l'aspetto economico e, più in generale, tecnico-produttivo rappresentava soltanto una dimensione e nemmeno la più importante.

Si può dunque ritenere che il tentativo di ridefinire il Politico mediante criteri anti-economicistici e anti-individualistici (e che si tratti con ogni probabilità di un tentativo che difficilmente può incidere sull'attuale realtà socio-politica, lo si può ammettere, sebbene questo non escluda che possa almeno favorire o rafforzare l’orientamento intellettuale ed esistenziale di chi non è disposto a subire passivamente la globalizzazione) lungi dall'essere una difesa di una concezione totalitaristica del mondo, nasce dalla consapevolezza storica, teorica e, oserei dire, anche antropologica - tenendo conto dell'impoverimento culturale che contraddistingue l'individuo "massificato"delle società contemporanee - della necessità di tutelare il "bene comune", inteso come quella res publica (Natura, Lavoro, Moneta) che può far sì che ciascun individuo abbia un volto proprio interagendo con sé e con gli altri secondo concreti e molteplici criteri di senso e valore tali da manifestare ed esprimere, in forme storicamente e culturalmente differenziate, l'autentica "natura razionale" dell'uomo.

1) Opere principali di Karl Polanyi:
Traffici e mercati negli antichi imperi, Einaudi (con Conrad M. Arensberg e Anne Pearson), 1978.
Economie primitive, arcaiche e moderne, Einaudi, 1980.
La libertà in una società complessa, Bollati Boringhieri, 1987
Il Dahomey e la tratta degli schiavi, Einaudi, 1987.
Cronache della grande trasformazione, Einaudi, 1993.
La sussistenza dell'uomo. Il ruolo dell'economia nelle società antiche, Einaudi, 1988.
La grande trasformazione, Einaudi, 2000.


Fabio Falchi

lunedì 6 luglio 2009

LETTURE: VÖLKISCHE WELTANSCHAUUNG

FEDERICO PRATI

Völkische Weltanschauung
Per una concezione völkisch del mondo

Genesi, mito, fenomenologia ed etica del nazionalismo etnico.

IL LIBRO - Nel libro, interamente dedicato all’aspetto metapolitico, mistico-spirituale, filosofico e trascendentale precipuo del pensiero völkisch e del nazionalismo etnico, l'autore analizza ed espone esaustivamente l'atavico e trascendentale significato legato al Blutmythos; il testo assume così il ruolo di opera-base e d’indispensabile riferimento per ogni tipo di riflessione ideologica e di affermazione mistico-filosofica connessa alla fenomenologia dell’etnonazionalismo völkisch. Il Mito del Sangue rappresenta, per l’autore, l’ancestrale nucleo biologico-razziale ed animico-spirituale da cui sono scaturiti e sorti dapprima il concetto völkisch e in seguito quello etnonazionalista. Il libro, ricco di documenti mai pubblicati in Italia, s’inserisce nel filone della Blut- und Bodenphilosophie. Le mistiche nozioni di Volk, di Sippen, di völkische Staat e di Blutmythos vengono ridefinite, raffinate, perfezionate, sviluppate e attualizzate dall’autore, che, con questa sua sesta e notevole opera sull’etnonazionalismo e sul pensiero völkisch, si pone, di fatto, come punto di riferimento, quale ideologo-fondatore di una nuova, ed allo stesso tempo, antichissima Idea, quello del nazionalismo etnico, “arricchito” e “corroborato” dall’unione con il pensiero völkisch. Un’Idea-guida, un punto di riferimento indispensabile, per tutti quei sinceri patrioti europei che non accettano e non vogliono accettare supinamente la distruzione delle proprie Heimat ad opera del mondialismo multirazziale e della globalizzazione omologante e totalizzante.

DAL TESTO – “In quest’epoca, in cui le infere forze della Sovversione e dell’Alta Finanza internazionale tendono, dunque, a dominare in modo quasi del tutto incontrastato ogni aspetto della vita dei Po¬poli d’Europa, cominciano, com’é naturale e logico che sia, a sorgere associazioni e movimenti dal carattere prettamente etno-identitario e comunitario. Essi costituiscono dei veri e propri nuclei-guida formati da sinceri patrioti, radicati nell’amore per i Popoli d’Europa, per le Blutsgemeinschaften europee, per la Tradizione spirituale e la Cultura delle comunità indoeuropee. Queste Avanguardie etnonazionaliste si palesano come le prime avvisaglie della futura resistenza etnica che, con la violenza di un uragano, si scatenerà contro ogni tentativo di massificazione e alienizzazione razziale e spirituale posti in atto dal Megacapitale apolide. E quanto più una Comunità Völkisch sarà stata oltraggiata nella sua più intima e vitale Essenza Razziale, animica e spirituale; ingiuriata della sua Ahnenerbe; vituperata della sua millenaria Storia, Cultura e Tradizione; iugulata nella sua autonomia e sovranità, tanto più rapidamente e radicalmente si svilupperà in essa il nucleo del movimento di riscatto e rinascita etnonazionale. E questi nuclei di Soldati della Tradizione, diventeranno battaglioni, i battaglioni diverranno reggimenti, i reggimenti divisioni. Si realizzerà, così, il riarmo psicologico e culturale delle Volksgemeinschaften europee. E con esso, i nostri Popoli riacquisteranno di nuovo la coscienza di appartenere ad una Razza e ad una Civiltà, quella indoeuropea, che non hanno eguali nel mondo. Verrà, allora, il fatidico giorno in cui l’ancestrale Blutfahne, assieme agli atavici stendardi che ci sono stati consegnati dai nostri Avi, ritorneranno a garrire al vento della Storia. (…)”.


Gli ordini possono essere effettuati:

per e-mail a: effepiedizioni@hotmail.com
identita_tradizione@yahoo.it

e per telefono al numero 338.919.5220