Nessun fenomeno al mondo può impedire al sole di risorgere


Credo nelle idee che diventano azioni

lunedì 30 novembre 2009

Evoluzionismo: tra scienza e ideologia

Sorprende l'immagine arcaica e obsoleta della scienza che si difende ogni volta che si discute di evoluzionismo: le teorie scientifiche accettate sarebbero non più 'falsificabili' ma confermate, in modo addirittura certo (nemmeno i fondamenti della MATEMATICA, com'è noto, sono 'certi') (1) e la scienza 'descriverebbe' addirittura la realtà, che evidentemente avrebbe una struttura matematica (ma quale matematica, dato che ve ne sono molteplici?) (2).
Da un lato, l'epistemologia più sofisticata afferma che la realtà che la scienza conosce è quella che, in un certo senso, dipende dalla scienza (realismo pragmatico o interno, sovradeterminazione e sottodeterminazione delle teorie) (3), dall'altro l'evoluzionismo (quasi sempre ingenuamente difeso dagli epistemologi) descriverebbe la realtà in sé, ossia come è indipendentemente dalla conoscenza scientifica (vale a dire che si assume acriticamente che la realtà che appare alla scienza sia la totalità della realtà e non sia possibile una differente interpretazione, non della realtà che appare alla scienza, ma delle dimensioni della realtà che sfuggono alla 'presa' della conoscenza scientifica, in quanto tale). La scienza sarebbe allora ad un tempo produttiva e non produttiva. Ma ciò è accettabile solo ammettendo che la descrizione scientifica sia fondata su un'indagine che prescinda da determinati aspetti della realtà, in quanto non suscettibili di essere espressi con i linguaggi della logica matematica, e costruisca i fondamenti della realtà osservabile, per poterla descrivere secondo la logica del “se...allora”. Questo è plausibile, scientificamente corretto e assicura che qualunque teoria scientifica è falsificabile (il che non significa che ogni teoria oggi accettata sarà falsificata).
Tuttavia, ciò non giustifica la tesi secondo cui l'oggetto della scienza è la totalità dell'essente e che, di conseguenza, la scienza sia l'unica forma di 'conoscenza'. E' evidente che, se si ritiene che l'uomo e la natura non siano altro che l'uomo e la natura come 'appaiono' in base all'indagine scientifica, si sostiene una concezione filosofica (che si denomina 'scientismo') e certamente non scientifica.
Un altro aspetto poco chiaro è il rapporto tra il liberismo e l'evoluzionismo, quest'ultimo presuppone che la natura funzioni essenzialmente come se fosse un mercato: la libera concorrenza favorisce (seleziona) il migliore (il più adatto) ed ottimizza il risultato complessivo grazie alla 'mano invisibile' del mercato (il 'caso').
E' quindi ovvio che ci si trova di fronte ad una griglia epistemica che è alla base della cultura moderna, oppure, se si preferisce, ad un paradigma fortemente trincerato, grazie ai successi della tecno-scienza. Successi di cui non si può dubitare, ma che inducono frequentemente e in modo totalmente arbitrario a ritenere irrilevante o addirittura falso, ciò che non può essere 'descritto' scientificamente.
La questione di fondo che si dovrebbe aver presente allorché ci si interroga sull'evoluzionismo è se l'uomo e la natura sono o non sono solamente ciò che la scienza può conoscere, essendo consapevoli che una visione scientifica del mondo (ingenua o sofisticata che sia) non implica che sia l'unica visione del mondo. Perciò, qualora si voglia difendere questa implicazione, non si può non ricorrere ad un'argomentazione di carattere filosofico e /o ideologico che, indipendentemente dal fatto che è quasi sempre basata su un'immagine del tutto sorpassata della scienza, è di necessità 'incastrata' nella NOSTRA esperienza del mondo. Ciò significa che un materialista può coerentemente affermare che solo le scienze empiriche possono spiegare il 'mondo' (nonostante i difficilissimi problemi di carattere epistemologico e ontologico che devono essere risolti per difendere questa affermazione), ma non potrà COERENTEMENTE sostenere che le scienze empiriche 'confermano' una concezione materialistica del mondo.

(1)Tra i molteplici paradossi che concernono i fondamenti della matematica e il rapporto fra matematica e la realtà fisica, è particolarmente significativo quello di Skolem. Lo si può spiegare semplicemente, in modo cioè non formale, così: dato un linguaggio logico-matematico per definire x, è possibile designare con lo stesso linguaggio non x. Si può ricordare anche il paradosso di Banach-Tarski : data una palla grande quanto la Terra, la si può suddividere in diverse parti, che possono essere combinate (usandole tutte) in modo tale da formare una palla grande quanto una pallina da tennis (anche questa spiegazione è naturalmente non formale). Si tratta di paradossi che difficilmente possono avvalorare l'ipotesi che la struttura della realtà sia una struttura matematica, o meglio che implicano che il linguaggio matematico lo si deve impiegare in funzione dello scopo che ci si prefigge.

(2)Nemmeno la semplice nozione di oggetto è, secondo la logica matematica, univoca. Posto che l'universo si componga di un numero finito di oggetti numerabili, se si volesse precisare quanti oggetti vi siano, sarebbero possibili almeno due diverse risposte. E' questo un tipico esempio di quelle descrizioni equivalenti che caratterizzano la scienza contemporanea (onda/corpuscolo, definizioni del punto etc.).

(3) La sovradeterminazione delle teorie, significa che i fatti non sono indipendenti dalla teoria che li spiega (ossia la distinzione tra termini osservativi e termini teorici dipende dalla teoria, o meglio dalle teorie che spiegano i fatti); si dice invece che le teorie sono sottodeterminate in quanto gli stessi fatti possono 'confermare' due o più teorie che sono in competizione tra di loro.

Riferimenti bibliografici:

M.Kline, Matematica. La perdita della certezza, Mondadori, Milano, 1980.
P.K.Feyerabend, Contro il metodo, Feltrinelli, Milano, 2002.
M.Pera, Scienza e retorica, Laterza, Bari, 1991.
H.Putnam, Realismo dal volto umano, Il Mulino, Bologna, 1995.
H.Putnam, La sfida al realismo, Garzanti, Milano, 1991.


Fabio Falchi

venerdì 13 novembre 2009

Logos e simbolo. In margine alla scomparsa di Lévi-Strauss

A mio avviso, la migliore e più pregnante definizione della 'tradizione ' si trova nel saggio del filosofo cristiano (forse un ossimoro, ma se così fosse, sarebbe certo un ossimoro 'fecondo') Luigi Pareyson,' Verità e Interpretazione'. Secondo Pareyson, la 'tradizione' consiste nell'indicare una determinata maniera di realizzare la verità, che in quanto espressa nel medium spirituale del linguaggio non può non essere, ad un tempo, una e molteplice.
L'esempio che si fa, di solito, è quello di un' interpretazione di un'opera d'arte, come la 'nona' di Beethoven: varia a seconda dell'interprete, pur essendo sempre la nona di Beethoven, e non mancano i criteri, che possono essere ricavati dall'opera stessa, per giudicare le diverse interpretazioni. Non nel senso che vi sia un'interpretazione superiore alle altre, ma perché si può, almeno in linea di principio, capire quali sono i tratti comuni che le differenti interpretazioni debbono avere per poter essere ciascuna interpretazione di una determinata opera e non di un'altra. In Pareyson però manca, tranne un generico rimando alla funzione della filosofia, la formulazione esplicita di quale sia questo 'nucleo semantico' comune, cioè quel che deve caratterizzare una certa espressione come ri-velazione, sia pure non definitiva né esaustiva, della verità.
Tuttavia, se il divario tra l'esplicito e l'implicito, il detto ed il non detto, è il 'segno' stesso dell'inesauribilità che contraddistingue la verità, allora pare evidente che è la ' presenza 'del simbolo - inteso come cifra esistenziale, ontologica e metafisica, mai completamente decifrabile e suscettibile di nuove ed imprevedibili interpretazioni - che 'testimonia il nostro essere nella verità'. Per quanto vi siano casi in cui è difficile stabilire se un segno sia o no un simbolo, è innegabile che ve ne sono innumerevoli, come dimostra, in particolare, la scienza del mito e delle religioni, in cui non possiamo non impiegare questo termine per capire che ci si trova in presenza non di semplici figure del linguaggio, ma di figure del linguaggio e del pensiero, non 'traducibili', se non parzialmente,in concetti.
Un filosofo tedesco, Werner Beierwaltes, usa a tale riguardo, l'espressione 'metafora assoluta'. Si tratta di un sintagma, che egli impiega non tanto per spiegare 'contenuti e significati religiosi', quanto piuttosto per delucidare la struttura argomentativa del neoplatonismo, che nella riflessione sull'Assoluto, ricorre a complesse 'immagini metaforiche'che articolano e orientano l'argomentazione. E' possibile così delineare un 'discorso filosofico', quello che riguarda i principi ultimi della realtà, in cui il concetto e il simbolo, pur differenziandosi l'uno dal'altro, non sono irrelati o separati, bensì appunto distinti.
Non pare, di conseguenza, arbitrario o anacronistico ritenere che la filosofia dovrebbe configurarsi come l'espressione e la rivelazione di questo distinguersi del concetto da quel mondo dei simboli, da cui s'inizia il pensiero cosiddetto discorsivo e a cui il pensiero deve tornare per trovare conferma del proprio' movimento nel concetto' e per trarre l' impulso necessario per ampliare ulteriormente la sfera concettuale, secondo la direzione indicata dalla ricezione, storico-ermeneutica e teoretica, dei simboli stessi.
Del resto, per lungo tempo, anche se è vero che la filosofia occidentale si originò dalla separazione del logos dal mito e nonostante i reiterati tentativi di espellere definitivamente il simbolo dall'ambito del razionale per confinarlo nei bassifondi dell'anima, ci si è dovuti perlomeno confrontare con questo problema . Solo in epoca moderna, si è riusciti ad attuare (in larga misura, ma non completamente, a causa dei noti paradossi che concernono i fondamenti della logica matematica e della differenza tra la forma logica non' formalizzabile' del linguaggio naturale - tanto che J.Seifert la denomina 'logica materiale' - e quella di qualsiasi linguaggio artificiale) il programma di costruire una 'razionalità esatta', ma ciò inevitabilmente ha coinciso con la 'liquidazione' della filosofia e con la sua sostituzione con quella che Heidegger denomina la 'logistica'; oppure,ma ad un livello scientifico assai più basso, con la riduzione (è l'idea di fondo dello strutturalismo) della struttura del simbolo e di ogni linguaggio ad un'algebra dei 'segni', indifferente ad ogni questione di senso; a cui non poteva non seguire la de-costruzione (Derrrida e c.) di ogni idea di 'fondazione' e di ogni struttura o sistema.
Che lo strutturalismo sia stato 'de-costruito'sulla base delle sue stesse premesse e che la logistica si trovi nell'imbarazzante situazione di doversi giustificare rimandando all'utilità dei pro-dotti della tecno-scienza, mostra ancora una volta l'impossibilità di sbarazzarsi del 'fango semantico', della questione del 'senso', senza annientare l'uomo e la Terra in cui l'uomo dimora.
Cionondimeno, è inevitabile porsi la domanda se la filosofia possa ancora, ripercorrendo il proprio cammino a partire dai Greci, ritrovare le tracce di ciò che ha dovuto rimuovere e dimenticare, per essere fedele alla propria destinazione storica e che invece oggi dovrebbe recuperare per com-prendere il significato della propria crisi e che cosa da tale 'oblio' ne sia derivato, non solo per la filosofia, ma per l'uomo e per la Terra. Ma a questa domanda potrà rispondere solo il 'pensiero dell'uomo', nel doppio senso del genitivo, cioè in quanto pensiero che l'uomo pensa e in quanto pensiero che lascia apparire l'essenza dell'uomo, posto che l'uomo sia ancora in grado di corrispondere all'appello che il logos gli rivolge, sia pure nella forma sempre cangiante e plurale del linguaggio e della 'tradizione'.

Fabio Falchi

sabato 31 ottobre 2009

La negazione di sé dell'homo occidentalis

L'homo occidentalis è l'uomo del 'declino', l'uomo di Abendland, la Terra della sera, che ha fondato la propria identità sulla negazione della tradizione. Ed oggi che il mondo tradizionale è scomparso, non può che negare sé stesso. Da ciò deriva il 'fascino' della macchina, dell'automa e di tutto ciò che è 'impersonale', nel senso negativo del termine, vale a dire di ciò che è 'regressivo', indifferenziato, promiscuo, anodino. L' 'algebrizzazione' dell'esistenza, presuppone l'omogeneità, l'equi-valenza, la riproducibilità, la serialità. Assistiamo al 'capovolgimento' della figura archetipica del Sé, dell'Androgine: non la sintesi o l'unità degli opposti, ma la loro dissoluzione e neutralizzazione. L'individuo non è più così la 'manifestazione' di un tipo, di un'idea, di un'identità, secondo la prospettiva 'irripetibile' di un universale singolare. E' vero che nell'antichità e nel Medioevo questo era privilegio di pochi. Cionondimeno, anche la vita dei 'semplici' si svolgeva secondo valori identitari e comunitari, in una molteplicità di 'mondi sociali' strutturati dai simboli, dai riti, dalle feste e da una complessa rappresentazione culturale del tempo e dello spazio. L'ideologia illuminista, liquidando il 'tradizionale' come superstizione non solo ha tolto alla massa degli umili il sostegno necessario per far fronte con dignità e fermezza agli 'orrori' della dimensione quotidiana dell'esistenza, ma ha confuso l'apparenza con l'essenza, il velo con ciò che il velo necessariamente ri-vela.
Non può allora sorprendere che l'uomo contemporaneo non sia più un 'animale simbolico' (ossia tale da poter essere una persona differenziata, capace di enucleare nel flusso incessante del divenire un senso ed un valore in grado di orientare un'intera esistenza) ma un mero aggregato di pulsioni, perfettamente quantificabile . E' un 'rizoma', per usare la terminologia di Deleuze e Guattari, apostoli di una rivoluzione pseudo-libertaria che, inconsapevolmente, serve per abbattere gli ultimi ostacoli che ancora impediscono la totale colonizzazione dello strato profondo ed interiore dell'uomo (si deve riconoscere che, sia pure con i gravissimi limiti e le contraddizioni derivanti da un 'ideologia materialistica, il Marcuse dell'Uomo ad una dimensione fu buon 'profeta'). Tuttavia, qualsiasi tentativo di porre un freno alla progressiva degenerazione antropologica che caratterizza la società occidentale, per cacciare (ma da dove, se siamo gli abitatori del tempo, senza dimora e senza radici?) il' nostro ospite inquietante', ossia il nichilismo, equivarrebbe a cercare di fermare un jumbo jet con un elastico.
In Cavalcare la tigre Evola afferma: "il significato della crisi e delle dissoluzioni oggi da tanti deprecate, deve essere precisato indicando l'oggetto reale e diretto dei processi distruttivi: la civiltà e la società borghese. Misurate coi valori tradizionali, queste hanno però già avuto il senso di una prima negazione di un mondo a loro anteriore e superiore. Ne segue che la crisi del mondo moderno potrebbe ... rappresentare, hegelianamente, una "negazione della negazione", epperò significare, per un lato, un fenomeno a suo modo positivo. L'alternativa è che questa "negazione della negazione" sbocchi nel nulla ... ovvero che essa... crei un nuovo spazio libero, il quale potrebbe ... essere la premessa per una successiva azione formatrice".
Nessuno oggi è in grado di prevedere se l'homo europeus troverà in sé stesso l'energia intellettuale e il coraggio per andare oltre la linea, per varcare il meridiano zero del nichilismo, ma è certo che l'homo occidentalis è destinato a 'nientificarsi' nel 'caos organizzato' del mondo postmoderno.


Fabio Falchi

lunedì 5 ottobre 2009

In margine alla vicenda Polanski, intellettuale ebreo americano emancipato

Vi è un numero sempre crescente di persone che ritengono che tutto o quasi andrebbe per il meglio se l'uomo seguisse la propria natura. E' la tesi del “buon selvaggio” o quella sostenuta dall'antropologa M. Mead in Adolescenza a Samoa (un testo tutt'altro che esente da critiche sotto il profilo metodologico). Ma qual è la natura dell'uomo? Pico della Mirandola sostiene che l'essenza dell'uomo consiste nel non aver essenza, vale a dire che l'uomo è libero. Ma della libertà la maggior parte degli uomini può fare e fa, come insegna o dovrebbe insegnare la storia, o anche semplicemente la cronaca quotidiana, un uso pessimo, dato che è assai più facile regredire che progredire. La morale piccolo-borghese è grottesca e favorisce comportamenti bigotti, ma non comprendere che non vi è niente di “naturale” nell'innamoramento o nel provare piacere a uccidere è segno di grave immaturità intellettuale e di infantilismo. Non sono cioè i cosiddetti istinti a guidare l'azione dell'uomo e quando lo fanno l'uomo non è più uomo ma un bruto. Lo stimolo non determina la risposta, anche se può condizionarla, in quanto la risposta può consistere nel cambiare deliberatamente lo stimolo. Per questo motivo l'uomo può bere quando non ha sete, fare l'amore senza riprodursi e soprattutto può ridere o mentire. L'adolescenza è il periodo in cui l'immaginazione trascende il mondo-ambiente e scopre il lato nascosto, ”interiore”, delle cose e degli eventi del mondo. Se si vuole qualificare allora come 'naturale' l'agire dell'uomo (tralasciando i casi di regressione a un livello 'bestiale'), che si innamora o uccide o si sacrifica per l'altro, si deve prendere in considerazione questa triplice struttura: sentire, immaginare e pensare. Una struttura alla cui base vi è il poter essere e il poter non essere, ossia la libertà. Ma la libertà scissa da un'etica della responsabilità è inevitabile che si trasformi nella peggiore forma di necessità. E' la barbarie del relativismo assoluto, che non tollera altra identità che la propria. I pregiudizi dell'occidente mercantile e dell'uomo- massa diventano norma sociale, vincolante per tutti gli abitanti del pianeta. Polanski, l'intellettuale ebreo americano 'emancipato', è allora l'uomo libero dell'Occidente che si contrappone al “malvagio” musulmano, che copre con il velo il volto della propria donna e la ragazzina tredicenne la giovane emancipata, che si contrappone alla 'repressa' donna dell'Islam. E chi non s'adegua è un “bigotto reazionario”, che meriterebbe di essere “rieducato” in un campo di concentramento, gestito dalla Walt Disney Company, perché chi non ama l'America non ama se stesso. E chi non ama se stesso è pericoloso, perché nove volte su dieci è anche uno che non ama i figli di Sion.


Fabio Effe

mercoledì 16 settembre 2009

Luca era gay

di Emanuele Boffi

Il padre assente, il primo innamoramento, l'Arcigay e il business delle
crociere. Poi l'Aids, il buio, le mele buddiste e l'icona della Madonna. Ad
agosto si è sposato. Con Teresa

A tredici anni Luca si innamorò del suo compagno di banco. L'estate scorsa Luca si è sposato con Teresa, una bella ragazza, che quando dice qualcosa di importante ha il vezzo femminile di guardare all'insù. […]
Però nella comunità gay si sa che Luca è lui. Luca il
tabù, Luca lo scandalo, Luca che si è sposato ad agosto con Teresa.
Nomadismo sentimentale
«I miei genitori si separarono quando ero piccolo, mio padre se ne andò di
casa. Rimasi da solo con mia madre, in un ambiente tutto femminile. Giocavo
con le bambole, avevo mutato il tono della voce, mi sentivo molto
rassicurato quando stavo con le donne e spaventato, anche se attratto, dalle
figure maschili. Avevo tredici anni e nessun padre che mi spingesse a
entrare nel "gruppo dei maschi" da cui, invece, venivo respinto perché avevo
interessi diversi, perché non ero dei "loro", perché non giocavo a pallone
come tutti. Questo mondo che pure mi attraeva, al tempo stesso mi
spaventava, mi lasciava ai margini, solo. A quell'età questa mia infelicità
e, al contempo, la necessità, come tutti, d'affetto, si manifestò in
pulsioni omosessuali. Così mi innamorai del mio compagno di banco, un tipo
assai diverso da me, assai mascolino e virile. Sbaglia chi crede che "gay si
nasce", non è vero quel che è stato propagandato da certi manifesti. La mia
esperienza è comune a tutti gli omosessuali che ho conosciuto. T'innamori di
un maschio perché è quello che vorresti essere. Ecco perché gli omosessuali
si travestono da poliziotti, da militari, da machi: perché è quello che
vorrebbero inconsciamente diventare, ma non possono essere.
L'attrazione per il mio compagno non era corrisposta. Io stavo male, ero
infelice, nascondevo i miei pensieri, non ne avevo fatto parola con nessuno.
Finché i miei genitori mi portarono in un consultorio. Lì fu loro detto che
ero gay, di non preoccuparsi, anzi di lasciarmi esprimere secondo la mia
tendenza. Ecco il primo passo: se invece fossero stati aiutati a comprendere
che il mio disagio nasceva dalla mancanza di una figura maschile di
riferimento oggi, forse, saremmo qui a raccontare un'altra storia. Invece, e
questo accade ancor con più frequenza oggi, di fronte all'omosessualità si
ragiona secondo una falsa categoria di libertà che non aiuta ad affrontare
il problema, ma lo rimuove, lo elimina, lasciandolo, di fatto, irrisolto.
[…]Omosessualità, e che cos'è? Erano gli anni di film come Il vizietto, La
patata bollente, anni in cui iniziava a manifestarsi una certa cultura gay.
Ne ero sollevato: non sono solo, ci sono altri come me. Me ne andai di casa
a diciotto anni ed entrai in un mondo colorato, affascinante, ricco di
persone estroverse, simpatiche e disinvolte. Iniziai a frequentare un
ragazzo con qualche anno più di me, a girare per discoteche e festini.
Divenni ballerino in una discoteca per omosessuali. Le prime volte era
bellissimo: gente accogliente e divertente sempre dedita al godimento della
vita, allegra. Ma c'è anche l'altro lato della medaglia: questi locali sono
dei veri e propri labirinti di sesso, dove ai piani superiori o inferiori
puoi soddisfare tutte le tue più recondite perversioni. Gli omosessuali
vivono un frenetico nomadismo sentimentale, non esistono relazioni stabili e
vere. è comprensibile: l'omosessuale, come chiunque altro, cerca altro da
sé. Se nell'altro trova solo qualcosa a sé simile, il rapporto non può che
essere effimero e compulsivo. Ma dopo la consumazione, quel che rimane è
solo una grande sensazione di vuoto, di insoddisfazione, di tristezza. Mi
fanno sorridere le rivendicazioni di coloro che chiedono il matrimonio
omosessuale: non può esistere stabilità e fedeltà nel mondo gay perché quel
che cerchi non può resistere a lungo. Anche là dove è stato introdotto il
matrimonio fra persone dello stesso sesso, quanti effettivamente si sono
sposati? E quante di queste relazioni sono durate? Pochissime, forse
nessuna.
Le casse dell'associazione
I primi tempi ero molto contento di questa mia vita. Eppure, la sera, quando
rincasavo, sentivo come un'ombra di tristezza. Mi sentivo solo, mi mancava
qualcosa di vero. E quando guardavo negli occhi i miei compagni vedevo la
stessa ombra. Però nessuno lo ammetteva, nessuno lo diceva. Riconoscerlo è
uno strappo doloroso. Significa ammettere che il bene che professi è solo
complicità, che la cultura che sostieni è basata solo sulla superficialità e
il piacere. Non si può avere una relazione con qualcun altro, se non si sa
chi si è.
Il sesso è il motore di tutto. Anche dei soldi, ovvio. Negli anni Novanta
andavo spesso a Miami: facevo il ballerino nelle discoteche più in, ma ero
un po' stanco di quella vita. Avevo studiato da accompagnatore turistico e
pensai di far fruttare quelle mie conoscenze. Mi rivolsi all'Arcigay
prospettando loro l'idea delle crociere per soli omosessuali. All'inizio la
loro reazione mi stupì: mi dissero "ok, ma devi rimanere nell'ambito della
politica di sinistra". Politica? Sinceramente mi importava ben poco. Però
avevo bisogno del logo dell'Arcigay per far funzionare gli affari. Alla fine
capirono che il business fruttava bene e mi concessero il logo. Per anni ho
versato quote consistenti dei miei guadagni all'associazione. E quando dico
consistenti, intendo proprio "consistenti". Ero anche diventato membro
dell'Iglta
(International gay & lesbian travel association) e frequentavo negli Stati
Uniti i loro corsi di marketing. Vi si spiega che "più sesso regali, più fai
soldi". Per cui si consiglia di organizzare gli spazi con le docce in comune
e di lasciare sempre degli ambienti con zone oscure in cui sia più facile
appartarsi.
La cosa funzionava. La mia Malu group (avevo sullo stemma un delfino e delle
palme) andava alla grande. Ero un convinto sostenitore dell'associazione ed
ero tra coloro che più si erano spesi - la vicenda mi portò una certa
notorietà - per organizzare il Gay Pride di Napoli. Continuavo la mia vita
dissipata tra i party della città, frequentavo persone importanti della
Milano bene, avevo contatti nel mondo dell'alta moda. Eppure ero sempre più
insoddisfatto. Se il sesso è tutto, quando finisce quello, finisce tutto.
[…]


conobbi POI Teresa. Diventammo amici. Mi divertivo con lei, mi piaceva, ci siamo
fidanzati. Non sapevo come... insomma, alla fine gliel'ho detto. Quel che mi
ha risposto dice tutto di lei: "Luca, quel che sei stato non è più. Importa
quel che sei ora". Dopo un anno di fidanzamento ci siamo sposati. Oggi siamo
alla guida del Gruppo Lot: aiutiamo gli omosessuali a rifiorire. Non siamo
psicologi, non è il nostro lavoro. Per quel che è stata la mia esperienza
posso dire solo che il lavoro psicologico e questi gruppi di preghiera hanno
avuto per me pari importanza. Ma sono due binari paralleli, possono non
intersecarsi. Vivo in affitto, non ho più le belle automobili di un tempo,
non mi interessa farmi pubblicità. Chiedo solo di poter affermare quello che
credo. Io stesso ne sono la prova vivente. Il problema dell'omosessualità
non riguarda il sesso, riguarda la propria umanità. Ero schiavo dei
sorrisetti e delle mistificazioni. Oggi sono un uomo vero, un uomo libero».

giovedì 23 luglio 2009

Trovare un cielo sulla terra. Al di là di dualismo e nichilismo: un approccio pagano

Conferenza tenuta il 15 maggio 1997 in occasione del terzo colloquio del Gruppo d’Orval a Herbeumont dal direttore della rivista Antaios Chistopher Gérard

Signore, Signori, rileggendo i miei appunti, ritrovo una citazione dell’etnologo Michel Leiris, tratta dal suo libro Le ruban au cour d’Olympia (1981), che mi sembra particolarmente adatta al mio intervento: «Trovare un cielo sulla terra». Leiris puntualizza: «L’uomo moderno (…) cerca di fondare la propria ricchezza su quanto il mondo gli dispensa fra alti e bassi. Superficialità, senza dubbio, e pertanto criticabile, ma quanto preferibile alla falsa profondità dell’apparente comprensione globale fornita da una credenza zoppicante».
«Trovare un cielo sulla terra» esprime bene quello che ho voluto indicare nel titolo “ufficiale” forse un po’ scolastico di questa mia chiacchierata: «Al di là di dualismo e nichilismo, un approccio pagano».
Giacché essere Pagano oggi è, a mio avviso, voler superare sia il dualismo delle religioni monoteiste rivelate - che chiamerò per comodità religioni abramiche (Giudaismo, Cristianesimo Islam) - sia il nichilismo, tipico di una modernità singolarmente distruttiva.
Nel precisare «un approccio pagano», ho voluto insistere su un fatto - oggi io mi propongo di presentare soltanto un approccio al paganesimo, nella fattispecie il mio approccio, hic et nunc. Dunque non intendo in nessun modo rappresentare la totalità della corrente neo-pagana contemporanea. Del resto, sono profondamente convinto che esistano tanti approcci al paganesimo quanti sono i Pagani. E questo non è forse nella natura delle cose, dal momento che il tratto caratteristico dei differenti Paganesimi, vecchi o nuovi, europei o no, consiste precisamente in quest’esaltazione dell’infinita pluralità del reale?
Ma vediamo che cos’è in realtà quello che viene chiamato Paganesimo. Il termine si può prestare a confusioni e malintesi, tanto più che esso è stato forgiato dai suoi avversari. Sono infatti i Cristiani che, nel corso del III e del IV secolo, hanno fatto della parola latina paganus (contadino) una sorta d’insulto.
I Pagani erano allora presentati come degli zoticoni, degli antiquati che rifiutavano - sfrontati! - di convertirsi alla vera fede, quella del Cristo. Ancora ai nostri giorni, il termine “Pagano” è talvolta inteso come sinonimo di “barbaro”, di “rozzo”, e addirittura, presso certuni, di “ateo”. Ora, esso non è niente di tutto questo.
Il Paganesimo che io difendo (per esempio nella mia rivista “Antaios”) è agli antipodi della discutibile esaltazione di chissà quale barbarie o quale culto della forza bruta. Lo scrittore ortodosso russo Vladimir Volkoff parla, in uno dei suoi romanzi, di «nietzscheismo da boy-scout vizioso», espressione che mi sembra assai calzante. Se i Pagani hanno sempre reso omaggi alle forze presenti nell’universo, non si tratta per noi Politeisti, né di un culto della violenza e tantomeno d’idolatria.
Quanto alla presunta rozzezza dei Pagani, mi limiterò a ricordare che da millenni questi ultimi hanno sviluppato metafisiche estremamente raffinate (si pensi ai Presocratici greci, alle Upanishad dell’India, alle scuole platoniche, pitagoriche o ermetiche…) e mitologie sontuose di cui l’antropologia strutturale di un Levi-Strauss e il comparatismo di un Dumézil hanno mostrato l’infinita ricchezza. Infine, l’ateismo - non dimentichiamolo - è pressoché sconosciuto nelle società tradizionali. Non parlo qui dell’ateismo di massa, che prolifera nelle nostre società postcristiane. Per questo rimando al libro di Marcel Gauchet sul Cristianesimo come agente del disincanto del mondo (1).
Se dovessi definire (molto) rapidamente il Paganesimo in quanto coerente visione del mondo, direi che esso è fedeltà alla stirpe - considerata nel quadro di una memoria millenari (quella che ci “re-ligat” [religio, religione, è appunto l'atto del religare, collegare - n.d.t.], che ci unisce ai nostri antenati lontani) - radicamento in un territorio (termine da prendere lato sensu) e apertura all’infinito. Potrei ugualmente parlare di partecipazione attiva al mondo, d’equilibrio ricercato fra microcosmo e macro cosmo.
Il Paganesimo è la religione naturale, la religione della natura e dei suoi cicli, la più antica del mondo perché “nata” - ammesso e non concesso che il mondo sia mai nato - con lui. Lungi dall’essere una fissazione di qualche tipo un po’ bislacco o una nostalgia da letterati fermi a qualche mitica Età dell’Oro, oso affermare che il Paganesimo sta per diventare di nuovo la prima religione del mondo. Infatti, se si considerano gli Induisti, gli Scintoisti, i Taoisti, gli animisti e gli adepti - sempre più numerosi - dei culti precristiani d’Europa o delle Americhe (si pensi alla spettacolare rifioritura dello sciamanesimo nell’ex-URSS), dei culti preislamici (Zoroastriani delle regioni turcofone) e persino pregiudaici (penso in particolare ad un gruppo di Ebrei americani che desidera ritornare ai culti politeisti degli Ebrei), si rischia davvero di arrivare a un totale approssimativo di millecinquecento milioni di persone. Il che ne fa, o ne farà presto, il primo gruppo religioso del pianeta. Due potenze nucleari, l’India e la Cina, sono politeiste - una sotto orpelli modernisti, l’altra sotto orpelli marxisti. In piena Pechino si costruiscono templi taoisti, e l’Induismo è divenuto offensivo, dal momento che missioni indù s’installano ai quattro angoli del mondo.
Per concludere questa breve illustrazione della reale importanza e del carattere non aneddotico del Paganesimo moderno, ricordiamo che il Paganesimo è religione ufficiale dell’Islanda dal 1973, che esso è in parte riconosciuto in Gran Bretagna (ospedali, prigioni eccetera) e negli Stati baltici. In Russia, correnti pagane si sviluppano a velocità vertiginosa, nel bene e nel male, visto e considerato il disastro sociale di questo Paese. Interessarsi al Paganesimo mi sembra dunque pertinente. Quello che più spesso si rimprovera ai Pagani, antichi e moderni, è il passatismo. E lo stesso rimprovero che veniva mosso dai marxisti a quei poveri pazzi che non consideravano Marx e Lenin come gli orizzonti insuperabili del pensiero. Questo rimprovero - di non essere «nel senso della storia - è del tutto insensato, dal momento che il Paganesimo non ha una visione lineare del tempo, un tempo visto come avanzata costante verso il Progresso (la Parusìa) a partire da un momento ben definito (la nascita del Cristo etc.). Questa concezione segmentata e lineare del tempo c’è estranea.
Noi Pagani concepiamo il tempo come ciclico, proprio come i cicli cosmici (quello solare, per esempio, con equinozi e solstizi). In realtà il Paganesimo è una religione dell’anno, e dunque della verità. Il tempo dei Pagani è quello dell’Eterno Ritorno, simile alla grande Ruota che gira e gira senza posa.
Noi non crediamo né alla creazione né alla fine del mondo. Per noi, non ci sarà apocalisse, ben sì innumerevoli fini di cicli, eternamente ricominciati. Una successione senza inizio né fine di nascite, crescite e declini, di crepuscoli seguiti da rinnovamenti, di cataclismi seguiti da rinascite, in seno a un Ordine (in greco: kosmos) intemporale, in cui uomini e Dei, mortali e Immortali, hanno il loro posto e la loro funzione. Il mito del Progresso non ci appartiene. Noi non crediamo al senso della storia (concetto totalitario, a mio avviso), alla “fine” del Paganesimo, alla “morte” degli Dei. Di conseguenza, il rimprovero di adorare divinità morte ci lascia indifferenti.
I nostri Dei, le nostre Dee non sono morti, per la semplice ragione che non sono mai nati. Apollo e Dioniso, Cernunno ed Epona, Mithra e Perkunas sono eternamente presenti al nostro fianco. Citiamo Eraclito (framm. 30): «Il mondo di fronte a noi - il medesimo per tutti - non lo fece nessuno degli Dei né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà, fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si estingue secondo misure». Questo breve frammento vecchio di venticinque secoli traduce le linee di fondo del pensiero pagano: eternità del mondo, ciclicità del tempo, comunità dei mortali e degli Immortali…
Se il tempo è lineare, come vorrebbero le teologie giudeo-cristiana e razionalista, il Paganesimo è impensabile, perché “morto”, e scandaloso, perché si muove in direzione contraria al sacrosanto senso della storia. Ma se, come tutti noi avvertiamo, il tempo è ciclico, la prospettiva muta radicalmente. Il Paganesimo non è mai potuto morire: perché, a immagine e somiglianza delle innumerevoli divinità che popolano i suoi innumerevoli pantheon, esso non è mai nato. Se le sue forme antiche (liturgie, templi…) hanno ceduto il passo ad altre che pure vi si sono largamente ispirate, tuttavia restano gli archetipi, che sono essi stessi eterni. Un bell’esempio è quello del Cattolicesimo medioevale, rimasto molto pagano: è quello che personalmente chiamerei il Pagano-Cristianesimo (fuochi di san Giovanni, e tutta la mitologia cristiana) (2).
Per meglio comprendere questa visione pagana del mondo, è indispensabile superare i blocchi mentali - i famosi “ostacoli epistemologici” di Bachelard - indotti dal modo di pensare giudeo cristiano. Marcel Détienne (uno dei maggiori ellenisti contemporanei), puntualizza nella sua illuminante prefazione al bel libro del professor W.F. Otto dedicato agli Dei della Grecia: «Dietro il falso sapere dell’intellettuale e dell’universitario, spunta il grande avversario (…): il cristianesimo, che fa da schermo fra gli Dei greci e noi, e che ci ha imposto in maniera insidiosa un certo modo di pensare la religione. Dapprima inoculandoci il virus dell’interiorità: in base al quale la religione è inseparabile da una relazione personale col Dio, che l’unico contatto possibile con la divinità deve avvenire attraverso un soggetto individuale - un Io che apprenderebbe il sacro grazie a una sorta di protesi dell’anima, l’anima inquieta e pavida delle civiltà malate. Altro male, non meno virulento: che il sentimento religioso nascerebbe da un bisogno di salvezza che va di pari passo con la trascendenza: che la finalità degli Dei consiste nel liberare gli uomini da questo mondo, nel farli salire accanto a sé, nello strapparli a una natura dalla quale sono essi stessi totalmente disgiunti. Con la sua angoscia di salvezza, Le sue gioie segrete di anima peccatrice, il cristianesimo è soprattutto un ostacolo epistemologico: una malattia, uno stato di languore al quale bisogna strapparsi e dal quale bisogna guarire se si vuole riscoprire la figura autentica degli Dei della Grecia» (3).
La citazione è lunga, ma notevole come perfetto esempio di teologia negativa del Paganesimo. Marcel Detienne ha colto benissimo le differenze fondamentali tra Paganesimo e rivelazioni abramiche. Qualcuno potrebbe obiettare che, nell’Antichità, esisterono delle correnti, minoritarie ma privilegiate dalla ricerca moderna, come l’Orfismo o i Misteri, che conoscono questa ricerca di salvezza personale. Semplicemente, noi non ci abbeveriamo a questa fonte, alla quale preferiamo la religione civile arcaica(4).
Un altro ellenista, Jean-Pierre Vernant, professore al Collegio di Francia, si è già posto la questione di sapere in quale modo noi potremmo vedere la Luna, Selene, con gli occhi di un Greco, cioè di un Pagano: «Ho potuto provarci in gioventù, durante il mio primo viaggio in Grecia. Navigavo di notte, d’isola in isola; sdraiato sul ponte guardavo, sopra di me, il cielo in cui brillava la luna, luminoso volto notturno, che diffondeva il suo riverbero chiaro, immobile o danzante, sulla cupa distesa del mare. Ero ammirato, affascinato da quel chiarore dolce e strano che bagnava le onde addormentate; ero commosso come davanti ad una presenza femminile, vicinissima e remota ad un tempo, familiare e tuttavia inaccessibile, il cui splendore fosse venuto a visitare l’oscurità della notte. Ecco Selene, mi dicevo, notturna, misteriosa e brillante - è Selene che io vedo» (5) Il professor Vernant ha ragione, in questa poetica rievocazione della sua gioventù, a parlare di “visione”. Il Paganesimo è soprattutto una conversione dello sguardo, quello che si rivolge su di un universo del quale noi siamo, insieme alle Dee e agli Dei, una parte integrante. Per meglio assimilare questa visione pagana, questo sguardo pagano, dobbiamo liberarci dal modello del “credente” delle religioni abramiche. Questo termine è realmente privo di senso per un Pagano: egli non crede, aderisce. Allo stesso modo, egli non si converte ad un’altra religione, che sarebbe l’unica vera (e che negherebbe ipso facto tutte le altre perché false, barbare o rozze). Semplicemente, il Pagano ridiviene quello che è sempre stato, perché l’anima è naturalmente pagana. Anima naturaliter pagana.
Liberarsi, dicevo, dal modello del credente. Uno che crede di potersi assicurare la salvezza individuale ed eterna quaggiù e nell’aldilà, in seno ad una Chiesa che, di fronte agli “infedeli” e ad altri eretici, deterrebbe essa sola il monopolio del Vero e del Bene, e che sarebbe l’unica abilitata a conferire al credente i sacramenti che fanno di lui un “fedele” in opposizione agli infedeli”, gli altri.
La nostra visione non è dualista, e noi respingiamo come prive di senso le opposizioni artificiali fra Dio creatore e creature, cielo e terra, anima e corpo, credenti e non credenti, ortodossi ed eretici etc. Il Paganesimo è olistico, non dualista, e il nostro cammino è soprattutto ricerca di legami più che di rotture. Ancora una volta, noi non neghiamo l’esistenza, nel Paganesimo antico, di correnti dualiste, alle quali però non facciamo riferimento.
Gli Dei e le Dee del Paganesimo non sono né unici né onniscienti. Essi non hanno creato questo mondo, ma sono nati in esso e attraverso esso. A mano a mano che l’universo, ciclo dopo ciclo, si organizzava a partire da entità primordiali (Urano e Gaia, per esempio), essi sono scaturiti per generazioni successive. I nostri Dei non sono persone, con le quali stabilire relazioni personali, ma Potenze. Essi incarnano la pienezza dei valori positivi: bellezza, splendore, forza, giovinezza…
Nel Paganesimo, esiste una comunità d’uomini e Dei, di mortali e Immortali. Nel Simposio Platone parla appunto di «comunanza reciproca d’uomini e Dei». Nel Gorgia, egli precisa: «i dotti affermano che il cielo e la terra, gli Dei e gli uomini sono legati insieme dall’amicizia, il rispetto dell’ordine, la moderazione e la giustizia, e per questa ragione essi chiamano mondo l’insieme delle cose e non disordine e sregolatezza». Molti secoli più tardi, Heidegger dirà: “La terra e il cielo, gli esseri divini e quelli mortali formano un tutto unico”.
Gli Dei non sono dunque creatori del mondo ex nihilo: come creare qualcosa a partire dal nulla? Essi sono emanazioni del mondo, nel quale si manifestano. Questo concetto di manifestazione è fondamentale nella nostra religione naturale, e si oppone a quello di rivelazione, che per definizione è soprannaturale. Allo stesso modo, noi ignoriamo dogmi e profeti, papi e curati, ortodossi ed eretici, sette e guru.
Il Pagano è nel mondo, che si sforza, in tutta umiltà, di decifrare per meglio cogliere le innumerevoli manifestazioni del divino. E’ Schiller, mi pare ne Gli Dei della Grecia, che diceva: «agli sguardi iniziati, ogni cosa indica la traccia di un. Dio» - ancora questa idea dello sguardo! Il Paganesimo non lascia mai che l’uomo si ripieghi su se stesso, sotto il peso del peccato originale. Al contrario, essere pagano consiste precisamente nell’aprirsi all’esperienza del mondo. Vorrei soffermarmi per un momento sull’importanza dello sguardo, che i Greci chiamavano theorìa, osservazione delle manifestazioni del divino. Essa ci riporta all’antica concezione dell’èn tò pàn, che si ritrova sia presso i Presocratici che nelle Upanishad: la dottrina non dualista dell’unità. In questa visione, il mondo non è visto come intimamente malvagio (”Il quaggiù”, termine quasi peggiorativo in francese), incline al peccato, valle di lacrime da attraversare in tutta fretta prima di potere accedere ad un qualche ipotetico “retromondo”. Non bisogna fuggire il mondo, ma affrontarlo, senza Illusioni né speranze di salvezza.
C’è dunque una reale accettazione del mondo, con tutte le sue infinite imperfezioni, ma considerato pur sempre come manifestazione del genio divino. La sua contemplazione attiva non può che rafforzare il nostro sentimento d’identità col grande Tutto. Queste concezioni intimamente pagane sono sopravvissute in seno alla cristianità europea. Le si ritrova, soffocate, in Scoto Eriugena, Meister Eckhart, Nicola Cusano… Il dogma cristiano del Dio creatore esterno al mondo, sua creazione, è sempre stato contestato. E la famosa tentazione panteista, tanto vilipesa dai teologi ufficiali, gelosi custodi del Vero.
Già Cicerone, nel De divinatione, precisa: «tutto è pieno di spirito divino e di senso eterno, di conseguenza le anime degli uomini sono mosse dalla loro comunità d’essenza con le anime degli Dei». Ricordate la citazione di Platone, poco più sopra? Ippocrate diceva, secoli prima di Cicerone: «pànta thèia kàt anthròpina» [ le cose sono divine e umane al tempo stesso - N.d.T.]. C’è del divino nel mondano e del mondano nel divino… Ho citato prima W.F. Otto, professore all’Università di Tubinga, oppositore del nazionalsocialismo e seguace di Zeus Olimpio. Nel suo notevole saggio sugli Dei della Grecia, dice: «Non è a partire da un aldilà che la divinità opera nel foro interiore dell’uomo, o nella sua anima, misteriosamente unita ad essa. Essa è tutt’uno col mondo. Essa si para dinanzi all’uomo a partire dalle cose del mondo, quando egli è in cammino e partecipa al fermento vitale del mondo. L’uomo fa l’esperienza del divino non attraverso un ripiegamento su di sé, bensì attraverso un movimento verso l’esterno». Il Paganesimo ignora dogmi e catechismi. Nessun libro sacro ci prescrive in modo autoritario quello che dovremmo “credere”. La nostra libertà di pensiero resta intatta. Soltanto, il nostro compito consiste nell’onorare Dei e Dee per mezzo di riti, giacché il Paganesimo è una religione d’opere più che di fede. Si tratta, è vero, di una religione vissuta nei gesti: il saluto al Sole e alla Luna, i solstizi e gli equinozi, l’offerta di un grano d’incenso o di qualche fiore…
Gli Dei non sono persone preoccupate della nostra sorte, bensì Potenze, mai particolari in sé- si tratta sempre dell’Essere del mondo tutto intero, nella manifestazione che gli è propria. Noi Pagani non ci attendiamo alcun soccorso, alcuna salvezza dai nostri Dei. La loro sola esistenza, la sola presenza di queste entità inaccessibili e tuttavia familiari basta a riempirci di gioia, a consolarci dei soprusi dell’esistenza. Se noi non ci aspettiamo nulla dai nostri Dei, anch’essi dal canto loro sono indifferenti alla nostra sorte, ed è giusto così. La morale della retribuzione ci è dunque estranea. Venticinque secoli fa - ieri - Euripide ha espresso perfettamente questo modo di sentire nella sua tragedia Ippolito. Ecco il dialogo che si svolge fra Artemide e il protagonista al momento della sua morte:
« - Artemide: Addio, non mi è permesso di vedere i morti, né di lasciare che il mio sguardo sta offuscato dall’ultimo respiro di un moribondo. E già ti vedo vicino a questo passo doloroso.
- Ippolito - Vai pure. E addio dunque, te felice! Possa tu rompere senza soffrire una lunga amicizia».Superbo esempio di superiorità e di distanza, agli antipodi d’ogni sentimentalismo. E qui, indubbiamente, il grande merito di questa filosofia, di questo atteggiamento: mai esitare a dire le cose come stanno, senza abbellirle né lamentarsi, senza lusingarsi, senza nascondere nulla e senza cercare la minima illusione consolatrice.
Ed eccoci ad un elemento centrale nella concezione pagana del mondo: il Senso del Tragico. Gli Dei non sono onnipotenti, per quanto siano simboli di pienezza. Essi non possono tutto, perché la loro potenza è limitata dal Destino - Virgilio lo chiamava «inexorabile Fatum». Esiste dunque un limite impossibile da superare. Presso i Greci sono le Moire, presso i Romani le Parche, presso gli Scandinavi, le Nome - che filano il destino proprio a ciascuno (6). Queste potenze impersonali e inflessibili sono l’Ordine inviolabile del mondo. Esse sono al di sopra degli Dei, come ricorda Omero: «nemmeno gli Dei, dice Atena, possono allontanare la morte dall’uomo che prediligono quando la fatale Moira colpisce».
Il senso del Tragico consiste appunto nell’accettazione del Destino: amor Fati. Esso è, del pari, coscienza acuta dei propri limiti e lucido rifiuto di ogni consolazione, considerata cosa indegna di un uomo libero. Un bell’esempio di personaggio tragico è presentato da Jacqueline de Romily nel suo ultimo libro dedicato all’eroe omerico Ettore (7).
Gli Dei del Politeismo contemporaneo non concedono alcuna ricompensa. E la nostra etica dell’onore che ci comanda di trasmettere un nome senza macchia, di essere fedeli alla parola data e di rispettare i contratti. Il Mithra degli Indo-Iraniani è proprio il Dio amico, quello del contratto.
Il Paganesimo è una religione non del peccato, ma dell’errore. L’errore supremo è quello che i Greci, nostri maestri, chiamavano hybris: la mancanza di moderazione, dettata dall’orgoglio, che spinge l’uomo accecato a scagliarsi contro l’ordine cosmico. Il più terribile esempio di hybris contemporanea è dato dai totalitarismi moderni, i quali, a furia di voler «cambiare l’uomo» in realtà lo avviliscono.
Il Paganesimo non postula alcun riscatto. Si tratta, è vero, di una religiosità di questo mondo, una religiosità dell’immanenza: il mondo è sacralizzato. La cosa sembrerà strana per quanti continuano a credere che la sola vera religione sia quella dell’aldilà. Ma essere Pagano oggi vuol dire anche liberarsi da questo genere di cascami. Il Paganesimo non è una religione del terrore, del disprezzo di sé, bensì della piena salute, fisica e psichica: mens sana in corpore sano, diceva Giovenale (Satire, X, 356). Inoltre il Paganesimo si caratterizza, idealmente parlando, per il suo gusto dell’equilibrio. Sono ancora una volta i Greci a tracciare per noi la via da seguire, col concetto delfico di Méden Agan, (nulla di troppo), illustrato dall’eccezionale senso delle proporzioni dell’arte ellenica. Il Paganesimo non è una religione di salvezza (anche se certi culti misterici che assicurano la salvezza agli adepti vi trovano un posto): si tratta invece di una religione terrena, mirante ad assicurare la pienezza ottimale in questo mondo, hic et nunc. Vi si cercherà invano la minima ossessione dell’aldilà. La morte non vi è considerata come elemento centrale (col corollario di un moralismo soffocante, e l’ipocrisia che ne scaturisce). La morte è una tappa nel processo eterno di trasmissione: come diceva Nietzsche - il filosofo col martello - «la Ruota gira» e la danza degli elementi continua, senza inizio né fine. Alla domanda angosciosa «che c’è dopo la morte?», noi aggiungeremo l’altra - «e prima della nascita?». Per noi, i cicli sono cominciati ben prima della nostra nascita e continueranno ancora per molto dopo la nostra scomparsa, a maggior gloria degli Dei. Taliesin, poeta gallese del Medio Evo, ha ben illustrato quest’intuizione (8):

« Sono stato rivestito di un’altra forma.
Sono stato salmone azzurro.
Sono stato cane. Sono stato cervo.
Sono stato daino sulla montagna.
Sono stato palo. Sono stato vanga.
Sono stato scure salda in mano.

Sono stato gallo variopinto
Signore di galline schiamazzanti.
Sono stato stallone nella scuderia.
Sono stato toro nella fattoria.
Sono stato setaccio del mugnaio.
Aia del coltivatore.
Sono stato seme nel solco.
Sono cresciuto sulla collina.
Chi mi aveva seminato mi ha raccolto».

Questo bel testo è più che sufficiente per concludere questa rapida presenta zione del Paganesimo, che, lo ricordo, è soltanto un approccio pagano. Ho voluto citare qui tutta una serie di testi - da Eraclito a Vernant, da Cicerone a Romilly, non per pedanteria ma per meglio mostrare che io sono soltanto una maglia di una catena plurimillenaria. In realtà, io mi considero «parlato» da queste testimonianze di una fede secolare, angariata, perseguitata, soffocata - ma sempre rinascente e indomita.
Per concludere, affido alla vostra meditazione il seguente testo, dovuto alla penna di Friedrich Hielscher, amico dei fratelli Jünger, oppositore del nazionalsocialismo e fondatore di un gruppo neo-pagano. Nelle sue memorie, egli cita queste parole di un suo amico, il pensatore ebreo Martin Buber: «Sapete, - disse Buber chinandosi verso di me - sapete, signor Hielscher esistono soltanto due possibilità: o Dio è il Creatore che ha creato tutto a partire dal nulla, il Tutto Altro, Colui che sta di fronte al mondo, come diciamo noi Ebrei e le nostre Sacre Scritture, oppure egli è al tempo stesso il Tutto e l’Uno, e il mondo si trova in lui, come diceva Goethe e come dite voi stessi oggi. Nel primo caso, io non posso innalzarmi fino a Lui, perché la creatura che io sono non potrebbe mai superare la distanza che ci separa; nel secondo caso, io non ho alcun bisogno di elevarmi fino a Lui, dal momento che io sono in ogni modo in Lui. E allora, perché tutte queste polemiche?»(9).

Note

1 M. Gauchet, Le Désenchantement du monde, Gallimard, Paris 1985
2 P. Walter, Mythologie chrétienne, Entente, Paris 1992
3 W. F. Otto, Le Dieux de la Grèce, Payot, Paris 1981
4 J. P. Vernant, Mythe et religion en Grèce ancienne, Seuil, Paris 1990
5 R. Boyer, Yggdrasill. La religion des anciens Scandinaves, Payot, Paris 1992
6 J. P. Vernant, (a cura di), L’Homme grec, Seuil, Paris 1993
7 J. De Romilly, Hector, Ed. de Fallois, Paris 1996
8 Cit. in: J. Sterckx, Le Dieux protéens des Celtes et des Indo-Européens, S.B.E.C., Bruxelles 1994
9 F. Hielscher, cit. in: “Nuovelle Ecole” n. 48, spécial Ernst Jünger, Paris 1996 E-mail: nuovelle-ecole@labyrinthe.fr

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Traduzione di Alessandra Colla e Manuela Badariotti

Pubblicato sul n. 156, (settembre 1997) della rivista Orion -


Christopher Gérard

Un breve commento.
C.Gérard difende in modo brillante e intelligente il paganesimo,tuttavia si può obiettargli di non aver messo in risalto che la natura degli antichi non è la natura oggettivata dei moderni e soprattutto che vi è il rischio di fare la difesa di un naturalismo volgare,se non di un materialismo grossolano, se non si comprende che il non-dualismo non è negazione di ogni trascendenza,altrimenti sarebbe una forma di monismo.
Riconoscere che vi è uno "spazio interiore del mondo"(Rilke)significa sforzarsi di aprire quell'occhio spirituale che permette all'uomo si superarsi,di trascendersi cogliendo la presenza e l'assenza del tutto nelle parti:che il mondo sia apparenza,o come sosteneva Colli es-pressione di Qualcosa che espressione non è,non esclude certo una valutazione positiva del mondo né implica una sorta di rassegnazione nei confronti del negativo.
Le ragioni del paganesimo si possono (e si devono ,ne sono convinto anch'io)difendere senza rifiutare duemila anni di storia e di cultura(come dimenticare,ad esempio,che la teo-logia dell'icona ci ha insegnato la profondità "metafisica"del volto ?).
Infine,mi pare difficile poter dubitare che i grandi mistici delle tre religioni monoteiste siano più" vicini"allo spirito del paganesimo di quanto lo siano la maggior parte dei cosiddetti neopagani.Quanto afferma Gérard,riguardo al "Pagano Cattolicesimo" del Medioevo,merita ancora di essere conosciuto,compreso e apprezzato,soprattutto ora che la "deellenizzazzione" del cristianesimo ha trasformato questa religione in una dottrina morale,quasi del tutto priva di un autenticoi fondamento metafisico e spirituale.


Fabio Falchi

martedì 14 luglio 2009

I ROM NON SONO RUMENI...... Segnalato da Costel Antonescu

In Italia

Gli zingari in Italia, come nel resto del mondo, rappresentano una comunità eterogenea, dalle mille sfumature e dalle mille espressioni. Mille sono anche gli anni della storia degli zingari divisi essenzialmente in tre gruppi principali: Rom, Sinti e Kalé (gitani della penisola iberica). A questi gruppi principali si ricollegano tanti gruppi e sottogruppi, affini e diversificati, ognuno con proprie peculiarità. Essi hanno un'origine comune, L'india del nord e una lingua comune, il romanès o romani ©hib diviso in svariati dialetti. L'opinione pubblica, che dei Rom e Sinti conosce poco o niente, tende a massificare e a confondere i diversi gruppi zingari, soprattutto tende a condannare e ad emarginare senza capire. La popolazione zingara in Italia rappresenta lo 0,16% circa dell'intera popolazione nazionale essendo stimati in un numero di persone compreso fra le 80.000 e le 110.000 unita. Sono presenti solo Sinti e Rom con i loro sottogruppi. I Sinti sono soprattutto insediati nel nord dell'Italia e i Rom nell'Italia centro-meridionale. Essi rappresentano gli zingari di antico insediamento a cui hanno aggiunti vari gruppi zingari di recente e di recentissima immigrazione. Circa 1'80% degli zingari che vivono nel nostro Paese hanno la cittadinanza italiana, il 20% circa e rappresentato da zingari extracomunitari, soprattutto provenienti dai territori della ex-Jugoslavia. Circa il 75% e di religione cattolica, il 20% di religione musulmana e il 5% raggruppa: ortodossi, testimoni di Geova e pentecostali.

L'arrivo in Italia

L'origine indiana degli zingari si è scoperta nel XVIII secolo attraverso lo studio della lingua zingara. Con lo studio filologico si è potuto ricostruire ipoteticamente l'itinerario seguito dagli zingari nel loro lungo cammino in quanto essi prendevano a prestito parole dai popoli con cui venivano a contatto. Dall'India del nord sono arrivati in Europa attraverso la Persia, l'Armenia e l'Impero Bizantino. Dai Balcani si sono diramati in tutta Europa, arrivando anche in Russia e, con le deportazioni, nelle Americhe e in Australia. Sono molti gli studiosi che credono che i Rom abruzzesi, fra i primi gruppi zingari arrivati in Italia, siano arrivati attraverso l'Adriatico provenienti dalle coste albanesi e greche, probabilmente per sfuggire alla repressione dei turchi ottomani. A sostegno di tale tesi si e fatto riferimento all'assenza nella parlata dei Rom abruzzesi di termini tedeschi e slavi. Ma si può obiettare: i turchi ottomani conquistarono tutta la Grecia e l'attuale Albania fra il 1451 e il 1520 (L. Piasere), mentre i Rom in Italia arrivarono molto tempo prima (il primo documento che attesta l'arrivo degli zingari e del 1422 ma ci sono molti indizi che inducono a credere che i Rom arrivarono ancora prima); i Rom abruzzesi hanno nella loro parlata sia termini tedeschi come tiÒ, glàse, brèg (ted. tiÒch = tavolo, glas = bicchiere, berg = montagna), sia termini serbo croati come plaxtà = lenzuola (s.c. phahta), niÒte = nulla (s. c. nista), a Òtar = catturare, afferrare (s.c. staviti), nikt (nikkete) = nessuno (s.c. nikto), a pukav. = fare la spia, denunciare (s.c. bukati), po (pro) = per (s.c. po); inoltre, perché i Rom con le loro carovane avrebbero dovuto viaggiare per via mare, via a loro scomoda, inusuale e all'epoca minacciata dai turchi, se per secoli avevano dimostrato di spostarsi con sicurezza e rapidità per via terra? Tutto ciò induce a credere che il grosso dei Rom abruzzesi sia arrivato in Italia dal nord per via terra, proveniente, dall'Albania o dalla Grecia, attraversando la ex-Jugoslavia e territori di lingua tedesca. Non è da escludere che effettivamente piccoli nuclei siano arrivati in Italia attraverso l'Adriatico assieme ad altre minoranze come Serbo -Croati e Albanesi. Tutto è comunque ancora da provare. Da questa piccola introduzione si può ben comprendere come sia difficile ricostruire la storia dei Rom sia perché i documenti a disposizione sono pochi ed incompleti sia perché i Rom non hanno lasciato nessuna testimonianza scritta. La storia dei Rom é una storia che non nasce dall'interno della sua comunità proprio perché essi rappresentano un popolo senza scrittura che affida alla "memoria" e alla tradizione orale il compito di trasmettere la propria storia e la propria cultura. La storia dei Rom è fatta dai Caggé (non zingari) attraverso le osservazioni di quanti ai Rom si sono in qualche modo interessati per la curiosità e la meraviglia che suscitavano o attraverso le disposizioni delle autorità pubbliche. Così dalla lettura delle Cronache del XV secolo si possono ricostruire sommariamente gli itinerari seguiti dagli zingari in Europa. Il primo documento che segnala l'arrivo degli zingari in Italia è quello del 18 luglio 1422, un'anonima cronaca bolognese contenuta nella Rerum Italicarum Scriptores di Ludovico Antonio Muratori: "A di 18 luglio 1422 venne in Bologna un duca d'Egitto, il quale aveva nome Andrea, e venne con donne, putti e uomini del suo paese, e potevano essere ben cento persone...... " Dalle "grida" e dai bandi che dal 1500 si sono susseguiti fino al 1700 si possono dedurre le politiche attuate dalle autorità nei confronti degli zingari: politiche di espulsione, di reclusione, di repressione, di deportazione, ovvero politiche votate al più completo rifiuto. (Attualmente siamo nella fase della politica di assimilazione).

I Rom abruzzesi

I Rom abruzzesi, con cittadinanza italiana, rappresentano dunque uno dei primissimi gruppi zingari arrivati in Italia e grazie alla lunga permanenza sono relativamente più inseriti nel contesto sociale ed economico della società maggioritaria rispetto ad altri gruppi di recente immigrazione. In passato le attività principalmente esercitate erano quelle che lasciavano spazio all'essere e alla creatività e quelle che facilitavano i rapporti umani. Da qui l'attività di musicisti, di fabbri calderari, di commercianti di cavalli, di lavoratori di metalli. Il progresso tecnologico, il boom economico, lo sviluppo delle attività industriali hanno soppiantato le attività tradizionali e la maggioranza dei Rom ha dovuto operare una riconversione economica, ma il modo di porsi di fronte alla vita e di interiorizzarla e soprattutto la struttura sociale dei Rom e rimasta nei secoli pressoché immutata. L'istituzione fondamentale su cui si regge la società romanes e la famiglia, intesa nel senso più ampio, come gruppo cioè che si riconosce nella discendenza da un antenato comune. Da sempre oggetto di violenza i Rom hanno rafforzato i rapporti endogamici e i vincoli di solidarietà familiare, mantenendo invece verso l'esterno un atteggiamento ostile. Vi è in questo un profondo senso di sfiducia e un'intima esigenza di difesa. Il sistema sociale e vissuto nelle profonde componenti umane, basato essenzialmente sul severo rispetto delle norme etico-morali che regolano e disciplinano la comunità romanes per garantire ai singoli individui la piena integrazione. Essi tutelano la dignità e l'onore del Rom. Non esistono classi o gerarchie sociali se si esclude quella semplicistica di ricchi e poveri, cosicché anche il più ricco e in relazione con il più povero e viceversa in base ad un principio di eguaglianza che riflette una ottica di vita di tipo orizzontale. In questo contesto il Rom abruzzese si sente parte di una totalità singolare che lo porta a differenziarsi sia dai caggé (non zingari) sia dagli altri gruppi zingari (Rom stranieri, Sinti, Kalé). ciò si traduce in un proprio stile di vita con modi proprio di esprimersi e di comportarsi. Alcune norme sono vincolanti, ad esempio: alle romniá abruzzesi non e assolutamente consentito dall'etica romanès di fumare, di indossare pantaloni, di truccarsi, di indossare costumi da bagno al mare, di giocare d'azzardo. Le donne che vogliono avere una buona reputazione ed intendono essere rispettate dai Rom si adeguano al rispetto di tali norme morali, che non le confonde con gli altri. Un Rom si sente perfettamente sicuro in seno alla sua comunità, costituita dall'insieme di tanti singoli gruppi parentelari dove non esistono né regine né tantomeno re come invece tende a far credere il sensazionalismo giornalistico che copre con la fantasia e l'immaginazione le proprie carenze informative. Il mondo' romano 'vien perciò presentato o in termini mitologici o in termini criminalizzanti, l'una e l'altra forma sono delle distorsioni che alterano il mondo zingaro producendo stereotipi negativi e pregiudizi di cui i Rom restano vittime. La sicurezza del Rom deriva dalla tradizione che lo pone sicuro di fronte al futuro e dalla coesione, che lo pone sicuro davanti all'imprevedibile. Tutto ciò si traduce in un forte equilibrio psicologico. Le relazioni ben strette fra educazione, coesione ed equilibrio psicologico sono minacciate con i contatti conflittuali esterni. Si pensi ad un bambino Rom che frequenta la scuola pubblica: entrare a contatto con una realtà che presenta dei modelli di vita funzionale alla società maggioritaria a cui e difficile per lui adattarsi, gli provoca inevitabilmente uno smarrimento in quanto è costretto ad operare una difficile scelta che nella maggior parte dei casi lo induce a ripercorrere la strada degli affetti familiari; da adulto mostrerà un atteggiamento ostile verso quella società non ancora preparata ad accoglierlo se non attraverso l'assimilazione. Lo stesso dicasi dei matrimoni misti in cui l'individuo esterno viene a rappresentare un elemento di disturbo se non riesce ad integrarsi. Il cardine della struttura sociale dei Rom e la famiglia patriarcale, dove il vecchio, considerato saggio, ne é rappresentante riconosciuto. Ci sono Rom che vengono esclusi per le loro pessime qualità morali, sono considerati "gavalé" e sono derisi e scherniti. I frequenti contatti all'interno del mondo romano hanno da sempre attivato una fitta rete di comunicazione interna che porta i Rom ad essere a1 corrente di ciò che accade a famiglie zingare anche molto distanti. I mass media rappresentano oggi, assieme alle organizzazioni tentacolari pseudo-zingare, la più grande minaccia all'esistenza dei Rom poiché infondono modelli di vita che allontanano i giovani dalla tradizione facendo allargare le maglie delle relazioni sociali e familiari, creando anche nuovi gusti e nuove esigenze che alterano l'etica romanès e che infondono nei Rom l'arrivismo e la necessità di possedere a tutti i costi il superfluo. Da qui le attività illecite. I Rom non preparati alla maniera dei caggé, cadono nel tranello. Cerchiamo ora di capire e di conoscere alcuni aspetti fondamentali della cultura e della vita dei Rom abruzzesi: la lingua, il sistema giuridico, la festa (fidanzamento e matrimonio), la morte.

La lingua

La lingua dei Rom abruzzesi detta "romanès" o "romaní ©hib" è strettamente imparentata con le lingue neo-indiane e conserva ancora fedelmente un gran numero di vocaboli di origine indiana. La lingua romani è arricchita di imprestiti persiani, armeni, greci, serbo-croati, di alcuni vocaboli tedeschi e di elementi dialettali dell'Italia centromeridionale a testimonianza dell'itinerario seguito dai Rom nel lungo cammino iniziato dal nord-ovest dell'India verso occidente.

martedì 7 luglio 2009

BENE COMUNE E RAGIONE MERCANTILE

Progressisti e liberisti sono soliti obiettare, a coloro che criticano la società di mercato e che ritengono che senza un’idea di bene comune, condivisa dai membri di una comunità, il legame sociale non possa non deteriorarsi, che il bene comune è una nozione troppo vaga, che denota più uno stato d'animo, che qualcosa di veramente rilevante sotto il profilo politico.

Si tratta tuttavia di un'obiezione che si può respingere con relativa facilità, se si conoscono le opere di un grande economista e storico dell'economia: Karl Polanyi (1).

Avvalendosi di una sofisticata metodologia multidisciplinare e della collaborazione di alcuni tra i massimi studiosi del mondo antico, Polanyi riesce a provare che la comunità "pre-moderna" era caratterizzata da un'economia "embedded", ossia incastonata in una struttura istituzionale assai complessa e articolata. Ciò era possibile anche per il fatto che lo scambio delle merci era un'attività economica che presupponeva la reciprocità (ad esempio, se un contadino si faceva male, gli altri contadini svolgevano anche il suo lavoro, dato che ciascuno di essi sapeva che se non avesse potuto fare il proprio lavoro, gli altri in virtù di un'obbligazione reciproca lo avrebbero fatto per lui) e la redistribuzione della ricchezza.

Soltanto con la Rivoluzione tecnico-scientifica prima e industriale poi, lo scambio delle merci diventa predominante a tal punto da poter progressivamente orientare tutte le attività economiche, sociali e culturali, mediante la formazione di un'Alta finanza che rende possibile un processo di espansione "esterna" (l'imperialismo) e "interna" (colonizzazione dei mondi vitali e ristrutturazione della rappresentazione sociale del tempo e dello spazio in funzione di un’ideologia mercantile).

Viene così a predominare, prima in Europa e in seguito in ogni parte del mondo, la forma mentis del mercante, dell'homo oeconomicus, che mercifica la Natura, il Lavoro e la Moneta; ovvero, secondo lo studioso di origine ungherese, si attua una radicale trasformazione della Terra e dell'Uomo, che corrode la base stessa del vivere comune, in quanto né la Natura (dato che è l'ambiente grazie al quale gli uomini vivono), né il Lavoro (dato che è una "merce" che pensa, vuole e sente) né la Moneta (dato che esprime le relazioni di scambio delle merci, secondo una logica che è di necessità anche di carattere sociale e politico) sono "merci".

Il fatto che Natura, Lavoro e Moneta si possano considerare "mere merci", occulta ma non cancella la loro struttura ontologica differente, il che spiega non solo le crisi ricorrenti della società capitalistica, ma anche e soprattutto lo spezzarsi di ogni legame sociale e la contrazione sia della sfera personale sia della sfera pubblica a vantaggio di un mercato ipertrofico, che comporta il totale controllo delle relazioni sociali ad opera di tecnostrutture private (anche quelle cosiddette pubbliche sempre più operano come fossero soggetti privati, vuoi perché sono strumenti di determinati gruppi di interesse, vuoi perché si regolano e sono organizzate in base a schemi che dipendono dal mercato) ossia di oligarchie tecno-plutocratiche transnazionali.

Le conseguenze di questa "Grande Trasformazione" vengono quindi più mascherate che spiegate se s’impiega il termine, apparentemente neutro ma che in realtà connota una ben precisa ideologia, "modernizzazione" per giustificare l'annientamento delle nostre "identità differenziate" e la spoliticizzazione della sfera pubblica.

Si comprende allora che cosa significa "bene comune": Natura, Moneta e Lavoro, infatti, designano un sistema di relazioni tra individui differenziati, che si fonda su molteplici forme di sapere non riducibili ad astratti modelli logico-matematici, utili certo a potenziare l'agire strumentale ma del tutto inadeguati a strutturare e comprendere l'agire comunicativo.

Ancor più degno di nota è che Polanyi, che pure era un socialista fabiano e perciò non aveva pregiudizi per quanto concerne una visione "progressista" della storia, dimostri che la comunità antica (la Gemeinschaft), contrariamente a quanto viene affermato da chi si ostina ancora a fare l'apologia del "mito" del progresso, non era affatto statica o immobile, bensì era stabile, vale a dire che il mutamento "scorreva" in altri canali istituzionali rispetto all'attuale società di mercato (la Gesellschaft): arte, politica, religione erano, ad esempio, mondi vitali estremamente ricchi e variegati, in grado di articolare una realtà multidimensionale di cui l'aspetto economico e, più in generale, tecnico-produttivo rappresentava soltanto una dimensione e nemmeno la più importante.

Si può dunque ritenere che il tentativo di ridefinire il Politico mediante criteri anti-economicistici e anti-individualistici (e che si tratti con ogni probabilità di un tentativo che difficilmente può incidere sull'attuale realtà socio-politica, lo si può ammettere, sebbene questo non escluda che possa almeno favorire o rafforzare l’orientamento intellettuale ed esistenziale di chi non è disposto a subire passivamente la globalizzazione) lungi dall'essere una difesa di una concezione totalitaristica del mondo, nasce dalla consapevolezza storica, teorica e, oserei dire, anche antropologica - tenendo conto dell'impoverimento culturale che contraddistingue l'individuo "massificato"delle società contemporanee - della necessità di tutelare il "bene comune", inteso come quella res publica (Natura, Lavoro, Moneta) che può far sì che ciascun individuo abbia un volto proprio interagendo con sé e con gli altri secondo concreti e molteplici criteri di senso e valore tali da manifestare ed esprimere, in forme storicamente e culturalmente differenziate, l'autentica "natura razionale" dell'uomo.

1) Opere principali di Karl Polanyi:
Traffici e mercati negli antichi imperi, Einaudi (con Conrad M. Arensberg e Anne Pearson), 1978.
Economie primitive, arcaiche e moderne, Einaudi, 1980.
La libertà in una società complessa, Bollati Boringhieri, 1987
Il Dahomey e la tratta degli schiavi, Einaudi, 1987.
Cronache della grande trasformazione, Einaudi, 1993.
La sussistenza dell'uomo. Il ruolo dell'economia nelle società antiche, Einaudi, 1988.
La grande trasformazione, Einaudi, 2000.


Fabio Falchi

lunedì 6 luglio 2009

LETTURE: VÖLKISCHE WELTANSCHAUUNG

FEDERICO PRATI

Völkische Weltanschauung
Per una concezione völkisch del mondo

Genesi, mito, fenomenologia ed etica del nazionalismo etnico.

IL LIBRO - Nel libro, interamente dedicato all’aspetto metapolitico, mistico-spirituale, filosofico e trascendentale precipuo del pensiero völkisch e del nazionalismo etnico, l'autore analizza ed espone esaustivamente l'atavico e trascendentale significato legato al Blutmythos; il testo assume così il ruolo di opera-base e d’indispensabile riferimento per ogni tipo di riflessione ideologica e di affermazione mistico-filosofica connessa alla fenomenologia dell’etnonazionalismo völkisch. Il Mito del Sangue rappresenta, per l’autore, l’ancestrale nucleo biologico-razziale ed animico-spirituale da cui sono scaturiti e sorti dapprima il concetto völkisch e in seguito quello etnonazionalista. Il libro, ricco di documenti mai pubblicati in Italia, s’inserisce nel filone della Blut- und Bodenphilosophie. Le mistiche nozioni di Volk, di Sippen, di völkische Staat e di Blutmythos vengono ridefinite, raffinate, perfezionate, sviluppate e attualizzate dall’autore, che, con questa sua sesta e notevole opera sull’etnonazionalismo e sul pensiero völkisch, si pone, di fatto, come punto di riferimento, quale ideologo-fondatore di una nuova, ed allo stesso tempo, antichissima Idea, quello del nazionalismo etnico, “arricchito” e “corroborato” dall’unione con il pensiero völkisch. Un’Idea-guida, un punto di riferimento indispensabile, per tutti quei sinceri patrioti europei che non accettano e non vogliono accettare supinamente la distruzione delle proprie Heimat ad opera del mondialismo multirazziale e della globalizzazione omologante e totalizzante.

DAL TESTO – “In quest’epoca, in cui le infere forze della Sovversione e dell’Alta Finanza internazionale tendono, dunque, a dominare in modo quasi del tutto incontrastato ogni aspetto della vita dei Po¬poli d’Europa, cominciano, com’é naturale e logico che sia, a sorgere associazioni e movimenti dal carattere prettamente etno-identitario e comunitario. Essi costituiscono dei veri e propri nuclei-guida formati da sinceri patrioti, radicati nell’amore per i Popoli d’Europa, per le Blutsgemeinschaften europee, per la Tradizione spirituale e la Cultura delle comunità indoeuropee. Queste Avanguardie etnonazionaliste si palesano come le prime avvisaglie della futura resistenza etnica che, con la violenza di un uragano, si scatenerà contro ogni tentativo di massificazione e alienizzazione razziale e spirituale posti in atto dal Megacapitale apolide. E quanto più una Comunità Völkisch sarà stata oltraggiata nella sua più intima e vitale Essenza Razziale, animica e spirituale; ingiuriata della sua Ahnenerbe; vituperata della sua millenaria Storia, Cultura e Tradizione; iugulata nella sua autonomia e sovranità, tanto più rapidamente e radicalmente si svilupperà in essa il nucleo del movimento di riscatto e rinascita etnonazionale. E questi nuclei di Soldati della Tradizione, diventeranno battaglioni, i battaglioni diverranno reggimenti, i reggimenti divisioni. Si realizzerà, così, il riarmo psicologico e culturale delle Volksgemeinschaften europee. E con esso, i nostri Popoli riacquisteranno di nuovo la coscienza di appartenere ad una Razza e ad una Civiltà, quella indoeuropea, che non hanno eguali nel mondo. Verrà, allora, il fatidico giorno in cui l’ancestrale Blutfahne, assieme agli atavici stendardi che ci sono stati consegnati dai nostri Avi, ritorneranno a garrire al vento della Storia. (…)”.


Gli ordini possono essere effettuati:

per e-mail a: effepiedizioni@hotmail.com
identita_tradizione@yahoo.it

e per telefono al numero 338.919.5220

venerdì 12 giugno 2009

L'IMMIGRAZIONE...

In Italia si dovrebbe smettere di giocare con le parole e fare proprio il principio di realtà. La politica dei respingimenti non è altro che il frutto di un accordo storico tra Italia e Libia che ha cominciato a funzionare. Si tratta di una politica che è del tutto normale quando viene messa in pratica da Paesi che sono letteralmente presi d'assalto.
Solo la sinistra italiana, per fare un esempio, è capace di attaccare il respingimento degli immigrati nel Canale di Sicilia verso la Libia, attribuendolo a Maroni, quando quell’operazione è stata introdotta da Giuliano Amato, ministro degli Interni del governo Prodi nel 2007. Comunque sia, i temi sul tappeto sono due, uno tattico, l’altro strategico. Il primo è semplice: l’unico modo per troncare il traffico di carne umana ad opera di moderni schiavisti nel Canale di Sicilia è quello di rendere impraticabile quel tragitto. Quindi, chi critica la politica dei respingimenti e non fa nulla affinché muti la drammatica situazione della maggior parte dei popoli africani, non fa nient’altro che favorire il permanere di questo traffico immondo.
Più interessante ancora è il secondo aspetto del problema, quel rifiuto della multietnicità di cui ha parlato Berlusconi e che ha creato nuove ondate di critiche. Anche qui la sinistra, e settori della Chiesa, giocano con le parole. E’ ovvio che nessuno è contrario al fenomeno di inserimento in un forte contesto di identità nazionale italiana degli immigrati regolari.E' evidente a tutti però che la società multietnica in Europa sia fallimentare (vedi,ad esempio, la Francia e l'Olanda). E'un modello a cui certo non si deve guardare anche e soprattutto perché è il prodotto di un feroce passato imperialista che ha dato origine ad un insediamento multinazionale che nulla ha a che vedere con quello che si sta verificando in Italia. La nostra situazione è invece simile a quella della Spagna, della Svizzera e della Germania, Paesi in cui gli immigrati sono stati chiamati per pure e semplici ragioni di mercato del lavoro.
Insomma, occorre da un lato lavorare per un progetto di integrazione degli immigrati in un contesto identitario italiano,senza favorire il "mercato degli schiavi", e dall'altro trasformare le frontiere marittime dell'Italia, della Grecia(che sono perfino più ingestibili delle nostre) e della Spagna in frontiere europee. Tuttavia non ci si deve illudere: fintanto che l'Europa non sarà un autentico soggetto politico ciascun Paese farà da sé e la questione dell'immigrazione diventerà sempre più tragica e difficile da risolvere.

lunedì 8 giugno 2009

SABATO 13 GIUGNO: presentazione del libro "Controrisorgimento. Il movimento filoestense apuano e lunigianese"


Controrisorgimento – Il movimento filoestense apuano e lunigianese

Sono trascorsi 150 anni (1859-2009) dai moti risorgimentali apuani e lunigianesi, solitamente narrati e ricostruiti come moti collettivi filounitari, che portarono i territori corrispondenti all’attuale provincia di Massa Carrara all’annessione al Regno Sabaudo. A molti anni da quegli eventi sono ancora poche le ricerche storiche che si basano su fonti di archivio e scritti dell’epoca. Molte ricostruzioni si sono, infatti, inserite all’interno dei due filoni nazionali di studi risorgimentali, quello crociano e gramsciano, senza prendere in esame i tanti documenti presenti all’archivio di Stato di Massa. Non a caso Nicola Guerra, l’autore di questo minuzioso studio sul Risorgimento apuano-lunigianese, ricorda la sorpresa provata nel constatare che i faldoni dell’Archivio di Massa inerenti i rapporti di Pubblica Sicurezza di quegli anni risultassero ancora impolverati e con molte pagine che il tempo e la mancata consultazione presentavano incollate una sopra l’altra.
Nicola Guerra ci presenta, in questo interessantissimo studio, un quadro storico complesso ed articolato che evidenzia una situazione sociale e politica ben lontana dalla collettiva sollevazione popolare filounitaria spesso narrata.
Seguendo la ricostruzione storica e sociale dello studioso apuano si intraprende un percorso, piacevole anche dal punto di vista narrativo, che presenta con chiarezza come nel comprensorio rispondente alla attuale provincia di Massa Carrara si verifichi una reazione filoestense, determinata da scelte e comportamenti individuali e collettivi, che assume i tratti tipici di un movimento di resistenza e di un fenomeno di volontariato militare.
L’autore, oltre a presentare una ricostruzione accurata e intrigante, affronta l’inquadramento di tali eventi all’interno del dibattito storiografico nazionale che lo porta a formulare e rispondere ad un chiaro interrogativo: il Risorgimento fu moto di unificazione nazionale, rivoluzione mancata o guerra civile?
Controrisorgimento – Il movimento filoestense apuano e lunigianese, questo il titolo dello studio pubblicato dalla Eclettica edizioni, riesamina il fenomeno risorgimentale non come evento a se stante, e dopo l’inquadramento nel contesto storiografico, guida il lettore in importanti considerazioni che affrontano una tematica attuale come quella della nascita dell’identità nazionale.
Nicola Guerra, percorrendo tramite fonti di archivio inedite la storia locale di un momento cruciale del nostro Paese, porta alla luce dettagli curiosi, a volte anche tragici, di uomini e donne che diedero vita al fenomeno che l’autore definisce come Controrisorgimento. Gli eventi locali trattati non restano scollegati dal contesto nazionale, come troppo spesso accade agli studi di “storia locale”, ed in questa ricerca rappresentano una importante componente di quel insieme di “storie” che costituiscono e rappresentano il Risorgimento italiano ed il processo di unificazione.
Nicola Guerra, dopo aver contribuito alla ricostruzione del fenomeno migratorio apuano e lunigianese ed al suo inquadramento nella grande storia dell’emigrazione nazionale (Partir Bisogna. Storie e momenti dell’emigrazione apuana e lunigianese, 2001), ci offre ora l’opportunità di comprendere meglio la nascita dell’identità nazionale, il risorgimento ed il controrisorgimento, nel nostro territorio e nel nostro Paese.
Non resta che augurarci che questo importante studio, pubblicato dalla giovane e promettente casa editrice Eclettica, avvii un dibattito e favorisca nuove ricerche su una tematica tanto importante non solo a livello storico ma anche socio-politico in una Italia ed in una Europa che vedono la forte rinascita di identità locali che talvolta si integrano ed altre volte confligono con le identità nazionali.

Nicola Guerra

Nato a Massa (Ms) nel 1969, laureato in Economia e Commercio presso l’Università di Pisa con una tesi sull’emigrazione italiana, ha pubblicato una importante monografia (Partir Bisogna. Storie e momenti dell’emigrazione apuana e lunigianese, 2001) e numerosi articoli sul fenomeno migratorio nazionale e locale.
Attualmente è dottorando di ricerca presso l’Università di Turku (Finlandia) dove si occupa di studi sul volontariato militare italiano.

giovedì 4 giugno 2009

CONFERENZA SUL TERREMOTO IN ABRUZZO

VENERDI 5 GIUGNO ORE 16:15
PALAZZO BOURDILLON – PIAZZA MERCURIO
INGRESSO LIBERO

CONFERENZA:
QUANDO LA TERRA TREMA: ABRUZZO DUE MESI DOPO


INTERVENGONO:
MARGHERITA MAZZARELLA, giornalista
MAURIZIO PAPUCCI, radioamatore
LORENZO TABARACCI, radioamatore
dott. ANDREA PICCININI, geologo
dott. STEFANO RADICE, storico
dott. ALESSIO GASSANI, psicologo psicoterapeuta
dott.ssa GIANET YEMANE, storica


All’interno della sala verranno esposte fotografie scattate sui luoghi del terremoto (foto di Margherita Mazzarella)


Patrocinio del COMUNE di MASSA
http://www.comune.massa.ms.it/

Circolo culturale “IL SOLE”
http://circoloculturaleilsole.blogspot.com/

Associazione culturale “Clara Wieck Schumann”

sabato 30 maggio 2009

Conferenza sul popolo KAREN

Venerdi pomeriggio si è svolta la conferenza organizzata dal circolo culturale Il Sole, da Casapound Massa e dalla comunità solidarista Popoli dal titolo "Karen: un popolo in lotta"
Un incontro molto interessante soprattutto perchè ha permesso di far conoscere la situazione di un popolo oppresso da oltre 60 anni e costretto ogni giorno a combattere per la propria terra e per la propria identità.
Fabio F. ci ha introdotto l'argomento cercando di fare chiarezza sul problema dei popoli oppressi, ma fieri delle proprie tradizioni (come noi occidentali purtroppo siamo sempre meno). Ha quindi passato la parola a Lorenzo Roggi, volontario di Popoli, da anni in prima linea nell'aiuto al popolo Karen.
Lorenzo ci ha raccontato in maniera chiara, lucida e coinvolgente come vive la minoranza birmana, costretta a combattere contro la giunta militare al potere dal 1949. Ci ha mostrato i valori morali di un popolo che si oppone a qualsiasi traffico di droga sul proprio territorio, che difende le proprie tradizioni, che vive in maniera comunitaria, nel senso più nobile del termine. Ci ha dato lo spaccato di una realtà che tanti, troppi non conoscono.
Al termine dell'incontro molti di noi avrebbero voluto davvero fare qualcosa per i Karen. Forse iniziare a parlarne, potrebbe già essere qualcosa.

Per saperne di più: http://www.comunitapopoli.org/

lunedì 25 maggio 2009

VINCERE.... 2 ore perse

VINCERE è il film di Bellocchio che ha avuto la pretesa di rappresentare il cinema italiano a Cannes. Una pellicola di oltre 2 ore, dalle scene scure, a volte troppo, dai dialoghi talvolta difficili da comprendere, soprattutto quando in stretto dialetto romagnolo.
Una storia sullo sfondo: l'amore e la relazione tra Benito Mussolini e Ida Dalser negli anni immediatamente precedenti alla prima guerra mondiale. Poi la nascita di un figlio, l'abbandono, l'internamento della donna in manicomio, fino alla sua morte.
Storia vera? Non è chiaro. L'unica certezza, al termine della proiezione, è data dalla scritta che mai nessun certificato di matrimonio fu trovato. Certo è facile obiettare che sicuramente se documenti fossero esistiti il regime li avrebbe tolti di mezzo. Può essere, ma sicuramente la storia che si basa su fonti certe non può ritenere vera questa esperienza.
Un po' come dire: vi è piaciuto tutto questo? Forse è solo finzione.

Per saperne di più: http://www.comunitapopoli.org/

lunedì 11 maggio 2009

VOTO UTILE

Lo slogan del voto utile viene riproposto alla vigilia delle elezioni europee. Coma già lo scorso anno quando sia Berlusconi che Veltroni, candidati leader dei maggiori partiti, rivolsero al popolo sovrano l’invito a concentrare i suffragi sui loro partiti ed evitare di disperderli, barrando con una X il simbolo della altre formazioni presenti in lista. Ne andava della governabilità e dell’efficienza, così ci dicevano dai salotti della politica, perché un Parlamento troppo frammentato avrebbe reso difficile qualsiasi processo di riforma e di innovazione. Troppe voci da sentire, troppe mediazioni da fare… Risultato: gruppi parlamentari ridotti drasticamente di numero e assenza, prima volta dal dopoguerra a oggi, delle rappresentanze dell’estrema destra e dell’estrema sinistra.
Oggi il leader del PD Franceschini ripercorre la stessa strada. L’invito, rivolto all’elettorato di centro sinistra, è quello di non votare per il partito di Di Pietro. Sarebbe un voto di protesta, per un partito che non ha un preciso progetto politico. Dietro questa dichiarazione si nascondono diverse letture. La volontà del PD di mostrare la propria forza elettorale, in quella che può essere definita una resa dei conti, a un anno dalla nascita del governo Berlusconi. Se il PDL infatti manterrà la posizione elettorale conquistata lo scorso anno, il Pd dovrà necessariamente constatare il proprio ulteriore fallimento. Prova del fatto che neppure il nuovo corso inaugurato dopo le dimissioni di Veltroni ha scalfito la posizione di Berlusconi. Il rischio, secondo Franceschini, è quello di “svegliarsi in un paese con un padrone assoluto”. Dura la risposta dall’IDV che, per voce del capogruppo Donadi, ha accusato il segretario del PD di essere ormai in preda alla disperazione. Uno scontro tra due partiti che solo un anno fa, alleati, sfidavano Berlusconi per il governo del paese. Alla base della disputa potrebbe nascondersi anche la volontà di giungere a una resa dei conti, dopo che di Pietro e i suoi han deciso di fare opposizione in maniera autonoma, creando un gruppo parlamentare proprio. È proprio su questo tasto che l’ex PM ha insistito nella replica: "Franceschini non ha titolo a chiedere il voto utile, per combattere Berlusconi, proprio colui che non ha avuto il coraggio di sfidarlo in prima persona ne' di porsi come partito di resistenza. Noi dell'Italia dei Valori siamo il vero voto utile perche' testimoniamo la lotta di chi, negli ultimi anni, ha combattuto in tutti i modi in difesa della democrazia di questo Paese”.
La campagna elettorale è appena iniziata e già si registrano le prime fiammate. Dopo le polemiche relative alle liste elettorali e alla presenza di veline e letterine, anche il centrosinistra mostra i propri problemi. Tutto alla faccia dei contenuti e dei programmi. La partita, che dovrebbe essere europea, legata quindi ai problemi prettamente europei (immigrazione, ratifica del trattato di Lisbona), rischia di essere di tutt’altro spessore.

giovedì 30 aprile 2009

IL SIGNORAGGIO

Che cos’è il signoraggio?

Il signoraggio è l'insieme dei redditi derivante dall'emissione di moneta. Gli economisti intendono per signoraggio i redditi che una banca centrale ed uno stato ottengono grazie alla possibilità di creare base monetaria in condizioni di monopolio. Negli stati moderni, solitamente, una banca centrale stampa le banconote mentre lo stato (ad esempio tramite una zecca) conia le monete, ed entrambi hanno un reddito da signoraggio. Il termine deriva da “seigneur", che in italiano significa "signore". Nel Medio Evo infatti erano i signori feudali i titolari del diritto di battere moneta e i beneficiari del guadagno che ne derivava. Nell'antichità, quando la base monetaria consisteva di monete in metallo prezioso, chiunque disponesse di metallo prezioso poteva portarlo presso la zecca di stato, dove veniva trasformato in monete con l'effigie del sovrano. I diritti spettanti alla zecca e al sovrano erano esatti trattenendo una parte del metallo prezioso. Il signoraggio in tale contesto è dunque l'imposta sulla coniazione, noto anche come diritto di zecca. Il valore nominale della moneta e il valore intrinseco delle monete non coincidevano, a causa del signoraggio e dei costi di produzione delle monete. Nel caso in cui lo stato possedesse miniere di metallo prezioso, il signoraggio coincideva con la differenza tra il valore nominale delle monete coniate e i costi per estrarre il metallo prezioso e coniare le monete. Già con i romani, da Settimio Severo si può parlare di signoraggio: questo imperatore dimezzò la quantità di metallo prezioso contenuto nelle monete, mentre lasciò invariato il valore nominale.
Ma le vere origini del signoraggio risalgono al 27 luglio 1694, quando il massone e banchiere londinese William Paterson fonda con alcuni fratelli la prima banca centrale al mondo: la Old Lady of Threadneedle Street, meglio conosciuta come Banca d'Inghilterra.
In sintesi il signoraggio è la differenza tra il valore nominale e il valore intrinseco di una moneta (costo di produzione e materia per produrle). Tale differenza, data la natura istituzionale della Moneta, dovrebbe spettare ai cittadini i quali attraverso un organo che li rappresenta dovrebbero emettere la stessa moneta. Il reddito da signoraggio invece va a chi emette moneta perché oggi la Moneta è emessa da una Banca Centrale (talvolta privata e talvolta pubblica) e creata da un sistema di banche ordinarie (per lo più private).

Un esempio chiarirà il meccanismo:
creare una moneta (sia essa di carta, in metallo o virtuale come un c/c) ha dei costi, dovuti alla materia prima, alla manodopera e ai servizi necessari di contorno, come la distribuzione, le tecniche anticontraffazione, etc..
Il costo maggiore è il materiale di cui è composta la moneta, e l’insieme di tutti i vari costi su indicati vanno a determinare il suo VALORE INTRINSECO. La moneta però riporta sulla facciata un numero che indica un altro valore: il VALORE NOMINALE (o, per l’appunto, DI FACCIATA o anche LEGALE).
I due valori (intrinseco e nominale) differiscono tra loro e la loro differenza determina quello che si chiama SIGNORAGGIO, ossia il guadagno che ha chi ha creato quella moneta.

sabato 25 aprile 2009

COMUNITA' E DECRESCITA di Alain de Benoist

di Fabio F.

Le mie critiche a PENSIERO RIBELLE non sono né intendono essere una stroncatura di Alain de Benoist, le cui contraddizioni invece ritengo possano stimolare una riflessione seria per una ridefinizione del Politico nell'epoca della spoliticizzazione della sfera pubblica.
Ben poche obiezioni, infatti, si possono fare alle tesi che il pensatore francese difende in COMUNITA'E DECRESCITA (Arianna ed.). In quest'opera, con notevole perspicacia e rigore scientifico,de Benoist (di)mostra l'assurdità di uno sviluppo illimitato e le conseguenze disastrose per il legame sociale derivanti dalla mercificazione dell'esistente. Ispirandosi a Serge Latouche - che, come è noto, difende l'idea di una decrescita, ossia la necessità di un'inversione di tendenza (che non è un impossibile ritorno al passato preindustriale ma un diverso modo di concepire l'eco-nomia) per il fatto che l'attuale modello socio-economico è non solo ingiusto ma anche eco-logicamente insostenibile - de Benoist mette in discussione il dogma diffuso dai media che il ben(e)ssere coincida con il consumo di una sempre maggiore quantità di oggetti.
E' senz'altro il miglior de Benoist quello che pone in luce le aberrazioni della civilizzazione del mercante e le ragioni di un'autentica democrazia partecipativa da contrapporre alla delirante ragione mercantile.
Un libro quindi che certamente vale la pena di leggere e che potrebbe e dovrebbe servire come base di discussione per chi oggi ha ancora voglia di pensare.

mercoledì 22 aprile 2009


Venerdì 24 aprile Gabriele Marconi sarà a Pisa! Lo scrittore e cantautore sarà nostro graditissimo ospite nella sede dui Via Lalli. Arriverà alle 18 per la presentazione del suo nuovo romanzo sull'impresa fiumana, "Le stelle danzanti". Ad arricchire la presentazione, ci sarà l'attore e autore teatrale Paolo Bussagli che leggerà alcuni brani di D'Annunzio. Alle ore 20:00 cena con prodotti tipici all'insegna della nostra serie di degustazioni "Mangia come Parli", con zuppa, pappa al pomodoro e una scelta di salumi tra i quali la nostra ormai famosa carne alla bigongia. Dopo cena, Marconi ci allieterà con la sua chitarra e alcune belle canzoni, e Bussagli con alcune letture dannunziane. Un'occasione da non perdere, tra formazione culturale e aggregazione identitaria. Vi aspettiamo!

lunedì 20 aprile 2009

DURBAN II

E' iniziata la conferenza sul razzismo a Ginevra e, come previsto, le parole del presidente iraniano Ahmadinejad hanno infiammato i lavori tanto che i delegati dei paesi UE presenti hanno abbandonato la seduta. Non quelli di Italia, Germania, Usa, Canada che non vi avevano preso parte. Troppo razzista il documento programmatico, o meglio, troppo anti Israele e quindi meglio non partecipare.
Israele ha richiamato il suo ambasciatore in Svizzera e il clima si sta surriscaldando. L'Europa, come troppo spesso succede, si appiattisce sulle posizioni dei padroni a stelle di Davide e strisce.
Tuttavia le parole del presidente iraniano hanno toccato alcuni problemi reali come quello del mancato rispetto dei diritti civili e politici in Usa (Guantanamo docet) o delle continue vessazioni che in Terra santa le popolazioni di Gaza subiscono. Chi ha utilizzato il fosforo nei bombardamenti di gennaio?
L'assenza dell'Italia decisa dal ministro Frattini è una grave sconfitta. Non è boiccotando un appuntamento di questa importanza che si può arrivare a delle regole di civile convivenza, sempre ipotizzando che si voglia arrivare a ciò.

venerdì 17 aprile 2009

COMUNICATO

Con il presente si comunica che a causa di uno spiacevole inconveniente accorso al dott. Jawad Yassine, dovuto a questioni personali, la conferenza indetta per il giorno sabato 18 aprile alle ore 16 dal titolo “L’Occidente, il terrorismo e la questione palestinese” è rinviata a data da destinarsi.
Il circolo culturale “Il sole” esprime la propria solidarietà al dott. Yassine e si impegna a comunicare al più presto la data nella quale la conferenza verrà recuperata.

mercoledì 15 aprile 2009

L'Occidente, il terrorismo e la questione palestinese

In occasione del progetto avviato nel mese di febbraio e con l’intento di mantenere viva l’attenzione sulle problematiche del conflitto tra palestinesi e israeliani, dopo i recenti e tragici fatti di alcuni mesi fa, il circolo culturale “Il sole” organizza per il giorno sabato 18 aprile 2009 presso le stanze del teatro Guglielmi di Massa alle ore 16 l’incontro dal titolo:

“L’Occidente, il terrorismo e la questione palestinese”

Interverranno, in qualità di relatori il dottor Jawad Yassine addetto stampa dell’ambasciata palestinese a Roma, Fabio Falchi studioso di storia e filosofia e membro del circolo culturale “Il sole” e Marzio Gozzoli capo redattore della rivista “Ordine futuro”.
Seguirà al termine degli interventi dibattito e possibilità di rivolgere domande ai relatori.

La cittadinanza è invitata a partecipare numerosa.

Circolo culturale “Il sole”

giovedì 9 aprile 2009

LUTTO NAZIONALE

Dopo il terremoto che ha colpito l'Abruzzo e le oltre 250 vittime il consiglio dei ministri ha deliberato il lutto nazionale per la giornata di venerdi 10 aprile.
E' il momento del dolore e della solidarietà verso quelle migliaia di persone che hanno perso i propri cari, la propria casa, che hanno visto crollare la propria città. Il popolo italiano si sta mostrando eccezionale in questa situazione. All'emergenza stanno rispondendo in milioni, ognuno in base alle proprie possibilità, chi con un sms da 1 euro, chi recandosi direttamente sul posto per dare una mano, chi accogliendo i senza tetto e gli sfollati. Ho sempre pensato che un popolo avesse i governanti che si merita, ma gli italiani stanno dimostrando di essere davvero qualcosa di molto molto meglio rispetto alla propria classe dirigente che in questi giorni affolla talk show e trasmissioni televisive per attribuire la colpa del disastro all'avversario politico, per rilasciare dichiarazioni inutili e penose, alla ricerca di 5 minuti di popolarità. Non serve ormai più a niente questo giochino. Quello che non doveva accadere è accaduto. Un imprenditore de L'Aquila ha mostrato al tg come la sua casa, unica tra un cumulo di macerie, sia rimasta in piedi, intatta. Un fatto sensazionale, ma che in un paese civile dovrebbe essere la regola. L'utilizzo della tecnologia adatta ad una zona sismica ha permesso a quella costruzione di rimanere in piedi, fiera, monito a quanti hanno speculato e fatto affari costruendo in maniera scellerata stabili che mai dovrebbero crollare in quel modo. Un ospedale costruito nel 2000 si è sgretolato come fosse un edificio antico. Qualcuno ne sarà responsabile, ma sicuramente non ne risponderà.
L'emergenza è stata ben gestita, ma la seconda parte? La ricostruzione? Si vuole costruire una nuova L'Aquila accanto a quella vecchia. Una città non è solo mattoni e strade è appartenenza è comunità è la storia di persone che lì sono nate e vissute. Non siamo nei film o negli spot televisivi. Milano 2 è un'altra cosa, lasciamola dov'è. Calata l'attenzione cosa succderà? Costringeremo gente a vivere per anni in prefabbricati, come purtroppo è già successo in altre circostanze. Se solo la ricostruzione fosse affidata alla gente... Ma non sarà così, arriveranno gli sprechi, i problemi e quanto altro di negativo ci possa essere.
Questa situazione potrebbe essere davvero un cantiere. Una possibilità di costruire una città a misura d'uomo, rispettosa dell'ambiente e della dignità umana.
Vedremo che succederà.

Leonida