Nessun fenomeno al mondo può impedire al sole di risorgere


Credo nelle idee che diventano azioni

lunedì 30 novembre 2009

Evoluzionismo: tra scienza e ideologia

Sorprende l'immagine arcaica e obsoleta della scienza che si difende ogni volta che si discute di evoluzionismo: le teorie scientifiche accettate sarebbero non più 'falsificabili' ma confermate, in modo addirittura certo (nemmeno i fondamenti della MATEMATICA, com'è noto, sono 'certi') (1) e la scienza 'descriverebbe' addirittura la realtà, che evidentemente avrebbe una struttura matematica (ma quale matematica, dato che ve ne sono molteplici?) (2).
Da un lato, l'epistemologia più sofisticata afferma che la realtà che la scienza conosce è quella che, in un certo senso, dipende dalla scienza (realismo pragmatico o interno, sovradeterminazione e sottodeterminazione delle teorie) (3), dall'altro l'evoluzionismo (quasi sempre ingenuamente difeso dagli epistemologi) descriverebbe la realtà in sé, ossia come è indipendentemente dalla conoscenza scientifica (vale a dire che si assume acriticamente che la realtà che appare alla scienza sia la totalità della realtà e non sia possibile una differente interpretazione, non della realtà che appare alla scienza, ma delle dimensioni della realtà che sfuggono alla 'presa' della conoscenza scientifica, in quanto tale). La scienza sarebbe allora ad un tempo produttiva e non produttiva. Ma ciò è accettabile solo ammettendo che la descrizione scientifica sia fondata su un'indagine che prescinda da determinati aspetti della realtà, in quanto non suscettibili di essere espressi con i linguaggi della logica matematica, e costruisca i fondamenti della realtà osservabile, per poterla descrivere secondo la logica del “se...allora”. Questo è plausibile, scientificamente corretto e assicura che qualunque teoria scientifica è falsificabile (il che non significa che ogni teoria oggi accettata sarà falsificata).
Tuttavia, ciò non giustifica la tesi secondo cui l'oggetto della scienza è la totalità dell'essente e che, di conseguenza, la scienza sia l'unica forma di 'conoscenza'. E' evidente che, se si ritiene che l'uomo e la natura non siano altro che l'uomo e la natura come 'appaiono' in base all'indagine scientifica, si sostiene una concezione filosofica (che si denomina 'scientismo') e certamente non scientifica.
Un altro aspetto poco chiaro è il rapporto tra il liberismo e l'evoluzionismo, quest'ultimo presuppone che la natura funzioni essenzialmente come se fosse un mercato: la libera concorrenza favorisce (seleziona) il migliore (il più adatto) ed ottimizza il risultato complessivo grazie alla 'mano invisibile' del mercato (il 'caso').
E' quindi ovvio che ci si trova di fronte ad una griglia epistemica che è alla base della cultura moderna, oppure, se si preferisce, ad un paradigma fortemente trincerato, grazie ai successi della tecno-scienza. Successi di cui non si può dubitare, ma che inducono frequentemente e in modo totalmente arbitrario a ritenere irrilevante o addirittura falso, ciò che non può essere 'descritto' scientificamente.
La questione di fondo che si dovrebbe aver presente allorché ci si interroga sull'evoluzionismo è se l'uomo e la natura sono o non sono solamente ciò che la scienza può conoscere, essendo consapevoli che una visione scientifica del mondo (ingenua o sofisticata che sia) non implica che sia l'unica visione del mondo. Perciò, qualora si voglia difendere questa implicazione, non si può non ricorrere ad un'argomentazione di carattere filosofico e /o ideologico che, indipendentemente dal fatto che è quasi sempre basata su un'immagine del tutto sorpassata della scienza, è di necessità 'incastrata' nella NOSTRA esperienza del mondo. Ciò significa che un materialista può coerentemente affermare che solo le scienze empiriche possono spiegare il 'mondo' (nonostante i difficilissimi problemi di carattere epistemologico e ontologico che devono essere risolti per difendere questa affermazione), ma non potrà COERENTEMENTE sostenere che le scienze empiriche 'confermano' una concezione materialistica del mondo.

(1)Tra i molteplici paradossi che concernono i fondamenti della matematica e il rapporto fra matematica e la realtà fisica, è particolarmente significativo quello di Skolem. Lo si può spiegare semplicemente, in modo cioè non formale, così: dato un linguaggio logico-matematico per definire x, è possibile designare con lo stesso linguaggio non x. Si può ricordare anche il paradosso di Banach-Tarski : data una palla grande quanto la Terra, la si può suddividere in diverse parti, che possono essere combinate (usandole tutte) in modo tale da formare una palla grande quanto una pallina da tennis (anche questa spiegazione è naturalmente non formale). Si tratta di paradossi che difficilmente possono avvalorare l'ipotesi che la struttura della realtà sia una struttura matematica, o meglio che implicano che il linguaggio matematico lo si deve impiegare in funzione dello scopo che ci si prefigge.

(2)Nemmeno la semplice nozione di oggetto è, secondo la logica matematica, univoca. Posto che l'universo si componga di un numero finito di oggetti numerabili, se si volesse precisare quanti oggetti vi siano, sarebbero possibili almeno due diverse risposte. E' questo un tipico esempio di quelle descrizioni equivalenti che caratterizzano la scienza contemporanea (onda/corpuscolo, definizioni del punto etc.).

(3) La sovradeterminazione delle teorie, significa che i fatti non sono indipendenti dalla teoria che li spiega (ossia la distinzione tra termini osservativi e termini teorici dipende dalla teoria, o meglio dalle teorie che spiegano i fatti); si dice invece che le teorie sono sottodeterminate in quanto gli stessi fatti possono 'confermare' due o più teorie che sono in competizione tra di loro.

Riferimenti bibliografici:

M.Kline, Matematica. La perdita della certezza, Mondadori, Milano, 1980.
P.K.Feyerabend, Contro il metodo, Feltrinelli, Milano, 2002.
M.Pera, Scienza e retorica, Laterza, Bari, 1991.
H.Putnam, Realismo dal volto umano, Il Mulino, Bologna, 1995.
H.Putnam, La sfida al realismo, Garzanti, Milano, 1991.


Fabio Falchi

venerdì 13 novembre 2009

Logos e simbolo. In margine alla scomparsa di Lévi-Strauss

A mio avviso, la migliore e più pregnante definizione della 'tradizione ' si trova nel saggio del filosofo cristiano (forse un ossimoro, ma se così fosse, sarebbe certo un ossimoro 'fecondo') Luigi Pareyson,' Verità e Interpretazione'. Secondo Pareyson, la 'tradizione' consiste nell'indicare una determinata maniera di realizzare la verità, che in quanto espressa nel medium spirituale del linguaggio non può non essere, ad un tempo, una e molteplice.
L'esempio che si fa, di solito, è quello di un' interpretazione di un'opera d'arte, come la 'nona' di Beethoven: varia a seconda dell'interprete, pur essendo sempre la nona di Beethoven, e non mancano i criteri, che possono essere ricavati dall'opera stessa, per giudicare le diverse interpretazioni. Non nel senso che vi sia un'interpretazione superiore alle altre, ma perché si può, almeno in linea di principio, capire quali sono i tratti comuni che le differenti interpretazioni debbono avere per poter essere ciascuna interpretazione di una determinata opera e non di un'altra. In Pareyson però manca, tranne un generico rimando alla funzione della filosofia, la formulazione esplicita di quale sia questo 'nucleo semantico' comune, cioè quel che deve caratterizzare una certa espressione come ri-velazione, sia pure non definitiva né esaustiva, della verità.
Tuttavia, se il divario tra l'esplicito e l'implicito, il detto ed il non detto, è il 'segno' stesso dell'inesauribilità che contraddistingue la verità, allora pare evidente che è la ' presenza 'del simbolo - inteso come cifra esistenziale, ontologica e metafisica, mai completamente decifrabile e suscettibile di nuove ed imprevedibili interpretazioni - che 'testimonia il nostro essere nella verità'. Per quanto vi siano casi in cui è difficile stabilire se un segno sia o no un simbolo, è innegabile che ve ne sono innumerevoli, come dimostra, in particolare, la scienza del mito e delle religioni, in cui non possiamo non impiegare questo termine per capire che ci si trova in presenza non di semplici figure del linguaggio, ma di figure del linguaggio e del pensiero, non 'traducibili', se non parzialmente,in concetti.
Un filosofo tedesco, Werner Beierwaltes, usa a tale riguardo, l'espressione 'metafora assoluta'. Si tratta di un sintagma, che egli impiega non tanto per spiegare 'contenuti e significati religiosi', quanto piuttosto per delucidare la struttura argomentativa del neoplatonismo, che nella riflessione sull'Assoluto, ricorre a complesse 'immagini metaforiche'che articolano e orientano l'argomentazione. E' possibile così delineare un 'discorso filosofico', quello che riguarda i principi ultimi della realtà, in cui il concetto e il simbolo, pur differenziandosi l'uno dal'altro, non sono irrelati o separati, bensì appunto distinti.
Non pare, di conseguenza, arbitrario o anacronistico ritenere che la filosofia dovrebbe configurarsi come l'espressione e la rivelazione di questo distinguersi del concetto da quel mondo dei simboli, da cui s'inizia il pensiero cosiddetto discorsivo e a cui il pensiero deve tornare per trovare conferma del proprio' movimento nel concetto' e per trarre l' impulso necessario per ampliare ulteriormente la sfera concettuale, secondo la direzione indicata dalla ricezione, storico-ermeneutica e teoretica, dei simboli stessi.
Del resto, per lungo tempo, anche se è vero che la filosofia occidentale si originò dalla separazione del logos dal mito e nonostante i reiterati tentativi di espellere definitivamente il simbolo dall'ambito del razionale per confinarlo nei bassifondi dell'anima, ci si è dovuti perlomeno confrontare con questo problema . Solo in epoca moderna, si è riusciti ad attuare (in larga misura, ma non completamente, a causa dei noti paradossi che concernono i fondamenti della logica matematica e della differenza tra la forma logica non' formalizzabile' del linguaggio naturale - tanto che J.Seifert la denomina 'logica materiale' - e quella di qualsiasi linguaggio artificiale) il programma di costruire una 'razionalità esatta', ma ciò inevitabilmente ha coinciso con la 'liquidazione' della filosofia e con la sua sostituzione con quella che Heidegger denomina la 'logistica'; oppure,ma ad un livello scientifico assai più basso, con la riduzione (è l'idea di fondo dello strutturalismo) della struttura del simbolo e di ogni linguaggio ad un'algebra dei 'segni', indifferente ad ogni questione di senso; a cui non poteva non seguire la de-costruzione (Derrrida e c.) di ogni idea di 'fondazione' e di ogni struttura o sistema.
Che lo strutturalismo sia stato 'de-costruito'sulla base delle sue stesse premesse e che la logistica si trovi nell'imbarazzante situazione di doversi giustificare rimandando all'utilità dei pro-dotti della tecno-scienza, mostra ancora una volta l'impossibilità di sbarazzarsi del 'fango semantico', della questione del 'senso', senza annientare l'uomo e la Terra in cui l'uomo dimora.
Cionondimeno, è inevitabile porsi la domanda se la filosofia possa ancora, ripercorrendo il proprio cammino a partire dai Greci, ritrovare le tracce di ciò che ha dovuto rimuovere e dimenticare, per essere fedele alla propria destinazione storica e che invece oggi dovrebbe recuperare per com-prendere il significato della propria crisi e che cosa da tale 'oblio' ne sia derivato, non solo per la filosofia, ma per l'uomo e per la Terra. Ma a questa domanda potrà rispondere solo il 'pensiero dell'uomo', nel doppio senso del genitivo, cioè in quanto pensiero che l'uomo pensa e in quanto pensiero che lascia apparire l'essenza dell'uomo, posto che l'uomo sia ancora in grado di corrispondere all'appello che il logos gli rivolge, sia pure nella forma sempre cangiante e plurale del linguaggio e della 'tradizione'.

Fabio Falchi